Il “mobbing”, dapprima studiato in etologia da Lorenz, è rivolto nel mondo animale esclusivamente alla tutela della prole o dei nascituri, verificandosi solo in presenza di uova fecondate o prole. Studiando la conflittualità genitoriale, da tempo ci siamo chiesti se essa, usualmente attribuita alle “dinamiche della coppia” o dei singoli che la compongono, non sia invece un fenomeno più complesso, di natura più prettamente antropologica, e legata a problematiche macrosistemiche. Studiando, sia pur molto empiricamente, un vasto campionario di coppie conflittuali, abbiamo raccolto l’impressione che il “mobbing genitoriale” consta dell’emergere di comportamenti etologicamente programmati, stimolati dall’irruzione, nella coppia con una propria storia personale e relazionale più o meno patologica, del contenzioso giudiziario, il cui codice operativo è quello di dividere creando antagonismi e confronti, e dunque del tutto antitetico alle metaregole con cui la coppia può generare o modificare le proprie regole e risolvere i propri problemi, per le quali è necessario un codice di condivisione che permetta alla coppia un largo margine di autopoieticità. Da questo punto di vista, ciò implica che il problema della conflittualità genitoriale è un problema antropologico e macrosistemico legato alla incapacità della nostra cultura di tutelare le relazioni e non, indiscriminatamente, i diritti dei singoli o, esprimendoci in altri termini, dovuto alla tendenza della nostra cultura di privilegiare prospettive di subottimizzazione nella soluzione di problemi sistemici e macrosistemici. Da un punto di vista clinico si tratta invece di arrivare a includere nella attuale nosografia psichiatrica il Disturbo da Separazione Genitoriale.
Testo:
Il termine “mobbing” è stato utilizzato per la prima volta in etologia da Lorenz, per descrivere gli attacchi di piccoli gruppi animali contro uno più grande. Nel 1984 Heinz Leymann e Gustavsson, lo usarono per descrivere le ripercussioni sul lavoratore di un comportamento ostile e prolungato da parte di superiori e i colleghi.
Una ricerca bibliografica compiuta sulla letteratura etologica, permette però di affermare che il “mobbing” animale è un comportamento rivolto esclusivamente alla tutela della prole o dei nascituri, e – soprattutto – che si verifica esclusivamente in presenza di uova fecondate o di prole.
E’ dunque acclarato che in etologia, come sostiene l’etologo Allock, “i genitori che manifestano attività di mobbing proteggono con essa i propri piccoli e le proprie uova, e che in questo risiede il valore adattivo di tale comportamento attivo”, cioè una sorta di situazione ottimale che favorisce negli individui la trasmissione dei propri geni. Il mobbing genitoriale è dunque, negli animali, per così dire un “programma comportamentale”, destinato alla tutela e alla propagazione della propria specie.
Il fatto che in un grande numero di specie animali esista un comportamento programmato destinato a proteggere la prole dall’estraneo, e che questo comportamento consista del tentativo di allontanare l’intruso o l’estraneo allorché questi si avvicina alla prole proprio attraverso tattiche di mobbizzazione, ci ha indotto a chiederci se lo stesso comportamento non si attivi, in qualche modo, anche nelle coppie umane in separazione, e – nel caso – come e perchè.
La nostra risposta è che molto probabilmente nelle coppie in separazione si attiva veramente un comportamento mobbizzante di derivazione, per cosi dire, etologica, e che questa attivazione avviene causa l’irruzione, di un codice antropologico che non permette alla coppia di portare avanti le regole e, soprattutto, le metaregole su cui la coppia genitoriale si è fondata. Tale codice antropologico è quello emergente dal procedimento giudiziario, e soprattutto dalle regole e metaregole che questo codice ispirano e governano.
In tutti i casi da noi osservati, infatti, (e, crediamo, nell’esperienza comune di chi si occupa di separazioni), il procedimento giudiziario sembra essere il vero punto di innesco (con capacità anche anticipatoria) di una rottura della coppia, e della sua capacità metacomunicativa, ormai irrimediabile e, se ci si passa il gioco di parole, non più mediabile.
Il punto – come vedremo – è che il procedimento giudiziario, che nel nostro contesto socioculturale è deputato a gestire la conflittualità genitoriale irrisolta, si fonda su una logica di prevalenza dei diritti del singolo rispetto ai diritti della relazione o, se si vuole, sul confronto fra chi, di due individui, ha più diritti dell’altro di esercitare la propria genitorialità nella convivenza con il figlio e, detta in modo forse non ortodosso ma sintetico, sul confronto fra quale, tra i diritti dei due singoli genitori, è più diritto di quello dell’altro rispetto a una comune e condivisa genitorialità. Solo con la recente introduzione del concetto di “affido condiviso”, il Diritto ha cercato di spostare verso la relazione genitoriale il proprio “focus” sempre orientato al confronto fra i diritti dei singoli genitori, ma la trasformazione appare lenta e perigliosa, perché per sua natura il procedimento giudiziario tende sempre a dividere più che a unire.
Il punto focale, nella logica che seguiamo, è dunque nell’irruzione del codice giudiziario nella coppia genitoriale, un codice che, rispetto alla autopoieticità della coppia, ha due caratteristiche fondamentali in grado di ledere irrimediabilmente questa autopoieticità.
La prima è che il codice operativo del Diritto è teso a dividere i singoli contrapponendone i diritti e negando così, nel concreto, l’esistenza di un diritto della “relazione” a esistere come tale (laddove per relazione non si intende quella matrimoniale o di convivenza, ma – nel caso specifico – quella genitoriale, che certo non può cessare nemmeno con il divorzio).
La seconda, last but not least, è che quello del Diritto è un codice operativamente più determinante rispetto a quelli generati dalla coppia, perché più in grado di essere più prescrittivo (e comunque più limitativo) dell’esercizio della genitorialità (ed è questo il motivo per cui si sente sempre dire, in questi casi: “te lo faccio dire dal giudice cosa puoi fare con nostro figlio!”, frase che implica che l’altro dovrà darsi da fare per esser lui a estromettere chi parla dalla gestione della vita del figlio).
Tale irruzione del Diritto è un’irruzione che usualmente noi – quali osservatori che erroneamente si ritengono estranei al problema – “leggiamo”, cioè percepiamo, come “causata” dalla scelta della coppia di rivolgersi “al giudice”.
A parer nostro questa lettura può forse essere funzionale in alcuni casi, ma è del tutto arbitraria quanto sostenere, ad esempio, che il movimento di un’auto sulla strada è dovuto ai comportamenti del pilota che la guida.
Il movimento dell’auto in questione, in realtà, non appartiene ad essa, ma al dominio della sua interazione con il contesto nel quale essa è immersa, e cioè – possiamo dire sintetizzando- al dominio della sua interazione con il fondo stradale: se invece di questo vi fossero delle sabbie profonde, e più o meno mobili, il pilota tutto otterrebbe ma non quel “comportamento” dell’auto che noi definiamo come “correre in strada”. Dal nostro punto di vista, il procedimento giudiziario conflittivo e collusivo sta alla coppia e ai singoli partner che la compongono, come il movimento dell’auto sta a chi la guida: il problema è osservare anche quale, per così dire, fondo stradale – e dunque quale soluzione socioculturale e istituzionale – viene offerta alla coppia in separazione. E’ infatti evidente che lo sdegno suscitato da tanta conflittualità genitoriale, che identifica nei partner in litigio dei genitori abusanti dei figli, dovrebbe mediarsi nella consapevolezza che qualcuno costruisce, a tanti conflitti, percorsi di conflitto che generano ricorsività del conflitto (la “macchina-coppia” – proseguendo nella nostra metafora – crede di prendere un’autostrada e finisce in realtà nelle sabbie mobili dei procedimenti giudiziari, da cui ognuno dei due crede di poter uscire pigiando sempre più sull’acceleratore).
In realtà, e qui sta il punto fondamentale, il ricorso al Diritto è – nelle situazioni di conflittualità anche modesta – un evento di fatto inevitabile, sia perché obbligatorio per esprimere socialmente e giuridicamente l’avvenuta separazione, sia perché in caso di incapacità della coppia a dirimere mediante regole proprie la propria conflittualità, l’unico spazio che appare fondante e dirimente è proprio quello del procedimento giudiziario. Occorre infatti considerare che i partner di una coppia in dissoluzione rischiano di essere metaforicamente nella stessa situazione psicologica dei personaggi del “dilemma dei prigionieri”, e dunque incapaci di sviluppare strategie di reciproca fiducia in grado di esser premianti per entrambi.
Il vero punto di innesco è dunque nell’esistenza di uno strumento di gestione sociale della conflittualità genitoriale, operativamente molto fondante come il Diritto (in grado cioè di imporre le proprie regole a due individui che non sanno più stabilire le proprie regole di condivisione della propria relazione), e che per definizione è uno strumento che esaspera invece di elaborarla la situazione da “dilemma dei prigionieri” in cui versano due genitori che non si fidano più l’uno dell’altro e non riescono a metacomunicare sulle proprie regole.
La scelta di “andare dal Giudice” appare dunque ai coniugi come l’unica possibile o, quanto meno, quella più in grado di regalare certezze.
Richiamandoci infatti a ciò che dice Luhman circa il Diritto, occorre ricordare che questo è un sistema sociale destinato a ridurre la complessità delle nostre possibilità di essere nel mondo; è quindi un rimedio generalizzato verso le aspettative: tende infatti a ridurre considerevolmente il rischio implicito nelle relazioni umane e la sua funzione risiede nella sua efficienza selettiva, dunque nella sua capacità di selezionare aspettative comportamentali generalizzabili a tutte le relazioni umane. Detto in altri termini, ciò significa che in una società in cui la soluzione ai conflitti di due genitori su chi e come deve crescere i figli è in una scelta tra un contenzioso personale e un contenzioso giudiziario, la scelta che farà sentire entrambi i partner più possibilmente immuni da rischi ed imprevisti legati all’altro, cioè all’ex partner che sta diventando “predatore”, è proprio quella di rivolgersi al Giudice e far stabilire a lui a quanta distanza il “predatore” debba stare.
Tale irruzione del Diritto distrugge irrimediabilmente, come dicevamo, la capacità della coppia di fondare (e soprattutto gestire) sé stessa a partire da sé stessa, e frammenta l’esperienza “coppia” dei due partner genitoriali – un’esperienza fino a quel momento condivisa su basi condivise – in un’esperienza paradossale, perché pone la condivisione (della genitorialità) come momento di divisione e conflitto per la prole, e costringe entrambi i partner a muoversi su prospettive assolutamente antitetiche e incompatibili fra loro, giacchè porta inevitabilmente ciascuno dei due a considerare solo sé stesso come il vero depositario della prosecuzione della coppia, e l’altro come un potenziale predatore, da scacciare con tutti i mezzi.
Ne emerge un caos di regole e comportamenti non più comprensibile a nessuno dei due genitori in conflitto, e, soprattutto, ne emerge che entrambi percepiscono sempre più l’altro come un intruso rispetto al nido della propria prole. Di tale “istintuale” e, metaforicamente, “biologica” violenza, fanno a nostro avviso fede proprio sia la – molto spesso – terribile “cattiveria” che puntualmente si sprigiona nelle coppie gravemente conflittuali, una “cattiveria” che sembra unire più che dividere i partner, sia la loro incapacità di gestire quelli che a noi appaiono come “acting out” nevrotici, che, come noto, possono arrivare al suicidio e/o all’omicidio di stampo stragista.
Detto in altri termini, e chiedendo scusa per le ripetizioni, con l’irruzione del codice giudiziario nella autopoieticità della coppia, una irruzione inevitabile per i significati di certezza ed esenzione dal rischio che il Diritto contiene, si attiva un innato, e biologicamente violento, istinto di tutela della prole, un istinto che non viene mediato e gestito da nessuna istanza (o istituzione) di trasformazione sociale, e che tanto meno ottiene risposte, tanto più diventa ricorsivo. Ciò impone l’attivarsi di quei comportamenti etologicamente programmati che noi – quali osservatori solo apparentemente estranei al problema – leggiamo come “conflittualità della coppia”, e che sono invece programmi comportamentali posti da sempre a tutela della prole.
L’emergere di tali comportamenti è di fatto dovuto alla necessità dei due frammenti di nucleo residuo (le due diadi genitore-figlio) di ritrovare regole e metaregole di rifondazione della propria unicità di nucleo in un contesto nel quale le precedenti regole di condivisione, e i tentativi per gestire il cambiamento (ricorso al Diritto) sembrano costituire un pericolo di predazione della prole da parte di un soggetto divenuto estraneo, perché antagonista in un dominio di esistenza (il contenzioso giuridico) più efficace del precedente (le regole della coppia) di imporre, se evocato, comportamenti prescrittivi e/o limitativi della genitorialità.
In assenza dunque di interventi sociali atti a favorire il riassestamento su nuove regole (e, soprattutto, di una vera cultura dell’interesse del minore) e in presenza del codice giudiziario, che impone prospettive di divisione e lotta a somma per così dire zero (ci rimandiamo qui al c.d. “dilemma dei prigionieri”), e che, soprattutto, può modificare con meccanismi impositivi il proprio rapporto con i figli, per ciascuno dei genitori separati si rende necessario ricorrerete alla tutela della prole utilizzando modelli di comportamento più immediatamente disponibili, anche se etologicamente più lontani da quelli del quotidiano convivere civile, come i comportamenti mobbizzanti della genitorialità altrui.
In altri termini, i genitori separati, lasciati soli a combattersi l’uno contro l’altro nel conflitto giudiziario (percepito tanto come miglior garanzia possibili dai rischi del convivere in assenza di reciproca fiducia, quanto, però, come in grado di ledere irreparabilmente la genitorialità in caso di sconfitta), devono attingere a modelli di comportamenti nei quali prevalgono – più o meno animalescamente – l’aggressività e l’attacco come regole di gestione dell’integrità del proprio nucleo familiare, ora individuato – da entrambi i genitori – nella propria esclusiva diade “genitore-figlio”. A tutto ciò sembra quindi, irrimediabilmente possiamo dire, far eco la famosa (ripetuta quanto ignorata) frase di Carlo Jemolo: “La famiglia è un’isola che il Diritto deve limitarsi a lambire”.
Se poi pensiamo che anche il Diritto è considerato un sistema autoreferenziale e autopoietico perché definisce da sé i propri limiti, dal momento che tutta la sua catena operativa si configura nello stesso codice ricorsivo (la distinzione fra “diritto” e “non-diritto”) e che la sua funzione è – come già detto – quella di essere garanzia e conferma delle aspettative di ottenere diritto (Campilongo C.F., 1997; De Giorgi R., 1995; Neuenschwander Magalhães J., 1997) ed esenzione dal rischio (Luhman, 1984) non possiamo non ipotizzare, anche, che la possibilità di ricorrere al Diritto in caso di conflittualità genitoriale, implica uno scontro terribile e senza soluzione fra due “poteri” (quello del Diritto, appunto, e quello della autopoieticità della coppia genitoriale) tra loro incompatibili e che l’unico esito possibile, in ogni singolo caso, sarà solo la distruzione: apparentemente di uno dei due codici (il Diritto o la autopieticità della genitorialità), in realtà di entrambi.
Il che – ce lo si lasci dire – è esattamente quel che avviene proprio nei casi di più accanita conflittualità: nei quali o le sentenze non vengono quasi per nulla osservate, e le relative denunce per elusione delle statuizioni e dei dispositivi del giudice non vengono mai presi in considerazione nemmeno dall’A.G. (nullificazione del codice operativo del Diritto), o uno dei due genitori cessa di esistere dalla vita del figlio (nullificazione del codice di genitorialità, il che, se si considerano sotto quest’ultima dizione i casi di figli che vedono il genitore non affidatario solo sporadicamente e senza che lui abbia più un ruolo genitoriale, è quel che avviene di norma).
Se si pensa poi che fine dell’intervento del giudice dovrebbe essere la tutela del minore e delle sue relazioni con i genitori, se ne deve solo dedurre che ad esser distrutti saranno sia il Diritto, sia la genitorialità.
Premettiamo che tutte queste nostre ipotesi affondano esclusivamente in un’esperienza diretta, assolutamente empirica e non standardizzata, relative ad un gran numero (oltre cinquecento) di coppie altamente conflittuali, nella cui storia – sempre in una nostra lettura – sembrano ripetersi tre aspetti caratteristici e peculiari.
Il primo è quella sorta di – almeno apparente – “organizzatività” che si riconosce nei comportamenti mobbizzanti del genitore in conflitto, che il più delle volte, specie nei casi ad elevata conflittualità, sembra pianificare strategicamente e accuratamente le proprie mosse e i propri comportamenti volti a escludere l’altro dalla vita genitoriale, quasi – cioè – non agendo mai d’impulso, ma preordinando appunto la serie di mosse che estrometteranno l’altro dalla vita della comune prole.
Il secondo è la differenza di percezione che i partner dei conflitti genitoriali sembrano avere di sé stessi e dei propri comportamenti. Il partner usualmente definibile come “mobbizzante”, cioè quello che in parole volutamente povere è “il cattivo”, sembra considerar sé stesso sempre pienamente nel giusto ad operare nel tentativo di estromettere l’altro dal proprio ruolo genitoriale, e questo anche se lo fa con modalità anche estremamente lesive (come ad esempio, inventando false accuse che portano in carcere l’antagonista, o allorché sottraggono i minori al loro ambiente per sottrarli all’altro genitore). Il genitore definibile come “mobbizzato” appare invece sempre – e come tale si percepisce – quale vittima di ingiustizia. E’ di solito vittima davvero di gravi ingiustizie, ma raramente riesce a dimostrarlo, perché chi assiste al conflitto si forma sempre o quasi l’idea che entrambi i partner stanno adottando una prospettiva e una strategia mobbizzante dell’altro, adottando cioè entrambi dei ruoli rispetto ai quali è difficile comprendere quale comportamento causi l’altro, e chi dei due sia un “mobber” e chi, soprattutto, no.
In realtà, tutto ciò non impedisce a entrambi i partner, proprio in virtù di quella logica paradossale, tipica di questo atipico procedimento giudiziario che li vede divisi – ci si scusi il gioco di parole – da una condivisione che li unisce in un conflitto nato per gestirla senza condividerla, di essere ognuno anche “mobber” oltre che “mobbizzato”, e al tempo stesso, “mobbizzato” quand’anche “mobber” – motivo per cui abbiamo parlato, più che di “mobbing”, di “contesti a transazione mobbizzante” (Giordano, 2005): con tutta la conseguente impossibilità di decrittare, in un contesto giudiziario che per garantire soluzioni deve invece distinguere e assegnare ruoli e comportamenti, quali sono e di chi i “veri” ruoli e i “veri” comportamenti.
Il terzo dato, è che il sistema che dovrebbe operare per riportare un equilibrio nella coppia, vale a dire il sistema sociogiudiziario, sembra di fatto colludere ampiamente con la conflittualità della coppia.
Questa che si potrebbe definire (in una lettura a nostro avviso un po’ miope, perché non mette in discussione le premesse del macrosistema in cui tutto ciò avviene), “collusività” tra sistema giudiziario, un sistema essenzialmente conflittivo perché volto, come detto, alla tutela dei diritti dei singoli piuttosto che delle relazioni in quanto tali, e coppia “conflittuale” – è un dato a nostro avviso assolutamente significativo e che – nella nostra lettura – si accompagna, a sua volta, a due fenomeni a nostro avviso ben rappresentativi.
Il primo di questi fenomeni riguarda la pressoché totale assenza nella letteratura scientifica di ogni ipotesi relativa all’influenza che può avere sulla conflittualità della coppia il sistema che dovrebbe gestirla, un sistema nel quale la conflittualità è premiata e premiante, e che opera tutelando non la coppia genitoriale, come ad un altro livello si afferma essere indispensabile, ma – appunto – i diritti individuali, laddove questi vengono riaffermati attraverso le “vittorie giudiziarie”, vittorie che il più delle volte implicano la sconfitta della relazione genitoriale quale tertium non datur del conflitto. Non esiste infatti, a quel che ci risulta (se non in un qualche vago accenno in qualche pubblicazione qua e là), articolo o impostazione scientifica che indaghi quale sia l’effetto del contenzioso giudiziario sulla conflittualità della coppia, e cosa potrebbe accadere se il nostro contesto sociale offrisse altre soluzioni.
Il secondo dato – del tutto speculare al precedente – riguarda la pressoché totale assenza di interesse del sistema giudiziario a veder rispettati i propri pronunciamenti. E’ esperienza comune constatare come le statuizioni giudiziarie non vengano ottemperate con grande facilità, che le infinite querele vengano totalmente disattese anche se comprovano comportamenti criminosi, che le false accuse di abusi e maltrattamenti vari riescono invece sempre o quasi a troncare calunniosamente il legame genitoriale, in assenza di qualsiasi stigmatizzazione giudiziaria, anche quando se ne ravvisi la dolosità.
In sostanza, la conflittualità genitoriale nelle separazioni sembra essere ad un livello un male cui porre rimedio, ma all’altro una strategia che tutti, alla fine ritengono comunque obbligata e premiante nella tutela della prole, quasi un male necessario, che difende realmente il minore.
Un ulteriore dato ci sembra poi confortare questo assunto: le differenze con cui la letteratura scientifica e quella giurisprudenziale, si occupano del “mobbing lavorativo” e, invece, del “mobbing genitoriale”. Mentre per quanto riguarda il mobbing lavorativo si assiste infatti a un fiorire di studi e tutele per i danni che provoca (quattordici sono i progetti di legge presentati a tutela dei mobbizzati, ognuno con una minuziosa descrizione di quelli che devono essere considerati i comportamenti mobbizzanti), per quanto riguarda le separazioni coniugali vi è il dato opposto: la conflittualità organizzata e finalizzata all’estromissione dal ruolo genitoriale, non è di fatto considerata un problema da nessuno, ma solo – all’atto pratico – una piaga di cui parlare nei convegni, o nei centri o nei siti di Mediazione, prima di partecipare come remunerati periti alla prossima causa di separazione.
Vi è poi un altro dato, che emerge osservando la discrepanza fra l’importanza che la nostra cultura e il nostro clima massmediatico quotidiano assegnano a una certa quantità di emergenze sociali, percepite come tali perché accomunano alcuni morti o feriti di diversa estrazione ma dovuti a una stessa causa lesiva, e per i quali si invocano periodicamente pronti rimedi (per citare: stragi del sabato sera, violenza negli stadi, il nonnismo, l’emergenza pittbul, la stessa violenza domestica, l’infibulazione rituale, eccetera), e l’importanza che assumono invece i morti da separazione: Nel periodo dal 1994 al 2004 (fonti RAI – Radio Televisione Italiana) “sono stati uccisi 158 minori (più di 15 ogni anno) per conflitto tra genitori in fase di separazione. Nello stesso periodo i fatti di sangue legati alla fine di una convivenza sono stati 691 con 976 morti. In oltre il 98% dei casi il delitto riguarda una coppia con figli, mentre solo nell’1,7% la coppia non ha figli”. Nel periodo dal 2005 ad oggi (fonte EURISPES-FENBI www.fenbi.it) vi è stato un ulteriore aumento del numero dei morti per separazione. Secondo la UE, duemila padri si tolgono ogni anno la vita per la lontananza dai figli.
Sono cifre statistiche che indicano un numero di morti enormemente superiore a quello che si sono avuti in episodi di rilevanza sociale (ad esempio: stragi del sabato sera) che, all’opposto, hanno suscitato più clamore massmediatico e ben più numerose richieste d’intervento. Eppure nessun rimedio sociale viene invocato per queste stragi che sembrano continuare non viste da nessuno.
Si deve dunque necessariamente dedurre che questo macrosistema culturale considera quanto meno accettabile a molti – o forse a tutti – i livelli della sua organizzazione sociale, il fatto che i genitori muoiano perché lottano per i figli e/o ne vengano allontanati.
Quando abbiamo cominciato a considerare questo punto di vista, e cioè che la conflittualità potesse esprimere davvero un valore nascosto, e che i comportamenti tesi a estromettere l’altro genitore dalla vita del proprio figlio non fossero spiegabili solo con la storia personale e della coppia, ma con una paradossale – mistificata e mistificante – legittimazione culturale che affonda le sue radici in derive etologiche, ci siamo resi conto che proprio inquadrando la conflittualità genitoriale in un unico concetto operativo, quello di “mobbing genitoriale” (o, meglio, di “contesto a transazione mobizzante”) appunto, si appalesava una visione per così dire etologica del problema, che a nostro avviso permette di spiegare molto adeguatamente perché la conflittualità genitoriale è sì considerata da tutti lesiva dei minori, ma appare poi – in concreto – accettata da tutti come una sorta di male, noioso e inevitabile e degno di grande disattenzione.
Ciò a nostro avviso emerge appunto – nella nostra lettura – dal fatto che in realtà i comportamenti mobbizzanti sarebbero programmi comportamentali geneticamente (o, quantomeno, “etologicamente”, con tutti i limiti esplicativi che tale termine comporta) predisposti e dunque, essendo volti nell’animale alla tutela della prole, non riescono ancora a innescare una reazione di allarme nelle nostre percezioni e dunque a qualificarsi alle nostre coscienze come comportamenti lesivi della prole, e questo, come detto, proprio perché in qualche modo ancora conservano un valore evolutivo e di tutela della specie.
Se ne dovrebbe dunque dedurre che il nostro attuale consesso culturale e scientifico ha un atteggiamento schizoide (e quindi schizofrenizzante, essendo un sistema in grado di gestire i singoli e di non esserne gestito) relativamente alla gestione della conflittualità genitoriale perché da un lato intende tutelare i diritti dei singoli (intendendo con questo termine il genitore e il figlio), e dall’altro non riesce a emanciparsi da derive etologiche finalizzate appunto, nel mondo animale, alla tutela della prole e in antitesi con le premesse stesse del Diritto che interviene a regolare i casi di conflittualità genitoriale (laddove il Diritto esclude il ricorso a soluzioni individuali e, soprattutto, di forza ma prevede – il che rende ulteriormente paradossale la situazione – un conflitto fra i due antagonisti per assegnare torti e ragioni).
Di questa logica schizofrenica e schizofrenizzante fa parte integrante la constatazione, empirica ma non smentita, della facilità con cui l’elusione delle sentenze in materie di affido dei minori non comporta che raramente un intervento giudiziario (si ha anzi il caso contrario: come fatti di cronaca sembrano insegnare, se alla base di una scomparsa di due minori si suppone vi sia un contenzioso giudiziario genitoriale, si ritardano le ricerche). Ciò starebbe a significare che in teoria il Diritto legge come crimini e reati la mancata esecuzione dei provvedimenti in materia di affido minori, ma nei fatti ciò non si traduce mai in una imperativa ricerca della legalità. In questa logica, e cioè leggendo i fatti da questa prospettiva, emerge dunque che il “mobbing genitoriale” evidenzia l’incapacità della nostra cultura ad elaborare soluzioni che implichino la tutela delle relazioni invece che quello dei singoli: detto in altri termini, è qui evidente che il nostro Diritto e la nostra cultura in genere colludono ampiamente con la conflittività animale per la prosecuzione della specie, e non sanno elaborare soluzioni adeguate a gestire i problemi genitoriale del consesso umano.
In questo senso, risulta da una parte logico aspettarsi che ai problemi della conflittualità genitoriale fossero date con gran celerità soluzioni legislative volte alla tutela della relazione genitoriale, dunque fondate sui percorsi mediativi. Dall’altra parte, appare inevitabile dedursi invece che l’attuale sistema di gestione del disagio da separazione – un sistema per così dire fondato sulla simbiosi o, quantomeno, sulla compenetrazione fra apporti scientifici di natura psicologica e apporti di scienze del Diritto – non operi in realtà disfunzionalmente, cioè colludendo di fatto con quella conflittualità che pretende di gestire, esasperandola proprio perché in posizione collusiva e fondamentalmente legittimatoria con essa. E’ infatti evidente che se invece che a una disparità di punti di vista su norme di convivenza civile, disparità per organizzare e gestire le quali deve intervenire un magistrato, il consesso sociale e culturale pensasse al conflitto fra genitori come a un disagio della coppia, la risposta della coppia stessa sarebbe differente ed enormemente differente sarebbe la risposta socioculturale data a questo disagio.
Da questo punto di vista, risulta chiaro poter pensare all’attuale sistema di gestione del disagio coniugale negli stessi termini con cui negli anni ’70 si pensava al sistema manicomiale rispetto alla gestione del disagio mentale. I luoghi di gestione dei conflitto genitoriale assomigliano sempre più a dei veri manicomi, in sostanza, perché recepiscono un disagio e lo cronicizzano proprio asserendo di gestirlo ma in realtà esasperandolo, e divenendo così un sistema di reddito per le professionalità deputate a intervenire, e che da ciò traggono vantaggi economici, reddito, e visibilità e importanza sociale e professionale. Diventa dunque consequenziale riaffermare che il “mobbing genitoriale” costituisce soprattutto un problema di natura antropologica, prima ancora che scientifico o giudiziario, in quanto esprime l’incapacità della nostra cultura a organizzare sistemi di gestione del conflitto non fondati, alla fine, né su comportamenti di conflittualità e sopraffazione, né su derive di valorizzazione del predominio di natura animale. Il che significa dire che la coppia che si rivolge al sistema sociogiudiziario che si occupa delle separazioni, è indotta a frantumarsi come tale proprio perché il sistema regolatore del conflitto, vale a dire il Diritto, è pensato per tutelare soprattutto, se non esclusivamente, i diritti dei singoli, e mai quelli delle relazioni in quanto tali e quindi ad avviare – in assenza di meccanismi correttivi – essenzialmente processi di “subottimizzazione” (tipici della nostra civiltà e cultura) in caso di contese legate ad un bene comune.
Come noto, il “principio della subottimizzazione”, si può così riassumere: “ottimizzare i risultati di un sottosistema può non ottimizzare i risultati del sistema nella sua interezza.” (Mariano Tomatis Antoniono, 2004, http://www.marianotomatis.it).
Per quanto riguarda la conflittualità genitoriale, la sua concretizzazione nei “contesti a transazione mobizzante” si realizza nel fatto che ogni genitore – una volta avviatosi il processo di dissoluzione della coppia – è convinto che i suoi diritti siano sovrapponibili ai diritti del figlio, e che le sue aspettative relative alla gestione del minore siano quelle che gli garantiscono il miglior sviluppo. In questo momento, comincia un processo di subottimizzazione del sistema “genitori-figlio”, perché entrambi i genitori – separatamente e in conflitto – ritengono che l’affermazione dei propri diritti combaci con l’affermazione dei diritti del figlio, e dunque che combattere per l’affermazione dei propri diritti implichi combattere per l’ottimizzazione dei diritti del figlio. In questa prospettiva, occorre constatare anche qui quanto emerso in altri punti della nostra prospettiva, e cioè che la gestione della conflittualità genitoriale è basata proprio su un sistema che non solo permette l’affermazione di tale prospettiva di “subottimizzazione” , ma anzi la pone come regola dei conflitti separativi, dal momento che propone, a elaborazione del conflitto, un confronto fra due antagonisti, confronto al termine dei quali il risultato è in una vittoria delle ragioni dell’uno che vanificano di gran lunga le ragioni (e la presenza) dell’altro. Abbiamo dunque che il Diritto si trasforma in un vero e proprio sistema distruttivo della ottimizzazione dei bisogni del minore coinvolto nel contesto genitoriale in separazione, il quale diventa, di fatto, un orfano, non biologico ma – per così dire – cognitivo e affettivo (e per il quale abbiamo coniato l’espressione di “orfani bianchi”).
In sintesi, ciò equivale a dire che la conflittualità genitoriale in corso di separazione coniugale, in altri termini l’attivarsi si “contesti a transazione mobbizante” con comparsa di comportamenti mobbizzanti tra genitori in conflitto per la separazione coniugale, è una risposta obbligata nelle coppie che ricorrono al sistema sociogiudiziario che si occupa delle separazioni, una risposta, paradossalmente, di tutela della prole, mediata da comportamenti etologicamente predeterminati.
Ovviamente, ciò non significa affatto che la coppia partecipi passivamente a questo innesco, quanto che recependone i valori, diviene poi responsabile – sia per quanto riguarda la coppia in quanto tale, sia per quanto riguarda i due singoli componenti di essa – di come, e soprattutto in che misura, questo codice viene reso esecutivo nel “sistema coppia”.
Quel che accade, detto anche qui in altri termini e visto per così dire dalla parte del sistema, è che questo macrosistema sociogiudiziario cui la coppia si rivolge per gestire il proprio conflitto non è in grado di restituire alla coppia la propria autopoieticità, perché – appunto – fondato su codici e canoni culturali opposti a quelli necessari alla sopravvivenza della coppia in quanto tale (che ha bisogno di riconoscersi in una tutela della relazione e non in una subottimizzazione che parta dai diritti dei singoli), e si comporta poi esattamente come una cultura di invasione, fondata di fatto su regole di predominio a somma zero, nel quale i vantaggi per i singoli partner sono illusori (come gli specchietti regalati ai selvaggi) e i veri guadagni sono del sistema (che inizia non a caso ad appropriarsi delle risorse economiche della famiglia).
Il genitore crede – in definitiva – che ottenere l’affido del figlio, e tutto quel che chiede al giudice – sia una vittoria, e che questa vittoria sia anche una vittoria dei diritti e della tutela del minore. A monte c’è invece un sistema che già ha guadagnato tre volte: dal disagio creatosi nella coppia, dalla prospettiva che il conflitto giudiziario sia una soluzione, e dall’idea che questa soluzione sia nella sconfitta e nell’estromissione di un genitore dall’avere una pari rappresentatività, rispetto all’altro, nella vita del figlio.
La conflittualità della coppia viene così aiutata (perché nessuno vuol negare le responsabilità dei singoli e delle coppie) sempre più a instradarsi verso logiche di separazione e sopraffazione e non di condivisione e solidarietà, perché il codice culturale del macrosistema è un codice che privilegia solo i diritti del singolo, e mai – o quasi mai – quelli delle relazioni.
Questo spiega anche perché la gran parte dei genitori che eludono le sentenze e compiono con elevata frequenza atti criminali, sembrano operare con la certezza che il loro comportamento resterà impunito, vale a dire certi di poter operare in assenza di legalità, e – ovviamente – dopo che il senso di solidarietà e condivisione è andato distrutto.
Ripetiamo però – sia pure con altre parole – una considerazione a nostro avviso fondamentale: sarebbe però un errore indicare nella coppia in conflitto un “buono” e un “cattivo”, proprio perché la conflittualità genitoriale va secondo noi – per così dire – ripensata del tutto: cioè inquadrata come un segno paradossale, e – soprattutto – obbligato, della ricerca di stabilità da parte di un microsistema (la coppia genitoriale) che sta per soccombere all’irruzione di una dimensione destruente, che è la cultura del macrosistema giudiziario, orientata alla difesa a oltranza del singolo, e dei suoi diritti e vantaggi.
Quello che occorre, a nostro avviso, è dunque un pensiero che vada oltre lo psicologismo e il tecnicismo giuridico quale quelli attuali, che segmentano nella coppia patologie e responsabilità, dando così modo ad un sistema altrettanto conflittivo di operare ricorsivamente, spinto dalla riaffermazione delle proprie regole e del conseguente vantaggio per chi ne fa parte.
Quello che deve dunque essere riscoperto anche collettivamente, è una cultura della relazione, che individui anche giudiziariamente nei legami affettivi, nelle relazioni umane, nel bisogno di condivisione e di solidarietà, il vero oggetto di tutela.
Nella nostra ansia, tutta occidentale e primomondista, di garantire all’Io, e dunque ai singoli, stabilità, prerogative, diritti, abbiamo infatti assolutamente dimenticato che ognuno di noi nasce come tale, e comprende di esser tale, solo perché immerso in una rete di relazioni affettive e cognitive che danno senso alla differenza fra un Io e un Tu.
Il messaggio che pertanto emerge dalla conflittualità genitoriale è un messaggio che riporti l’intervento professionale degli operatori del conflitto da una cura degli interessi dei singoli ad una etica personale di tutela delle relazioni.
Dall’altra parte, sarebbe a nostro avviso il tempo di considerare davvero la conflittualità genitoriale come patologia da curare nelle sedi opportune, e non da legittimare nelle aule di Tribunale. Se si esce, infatti, dalla percezione (autoreferenziale alle premesse che la producono), che la “conflittualità dei genitori” sia un dilemma da Codice Civile, e che il rivolgersi al magistrato sia “una scelta” dei genitori, e si entra invece nella logica che la conflittualità genitoriale è un disturbo della relazione, vale a dire un comportamento patologico condiviso il più delle volte molto lesivo di adulti e minori coinvolti, e la si inquadra conseguentemente come disturbo da curare, l’ipotesi che una coppia in conflitto si rivolga al giudice assumerebbe, prima o poi, la stessa dignità nosografica (e sociale) che avrebbe la richiesta di un paranoide di perseguire legalmente i propri persecutori, ottenendo ovviamente dal magistrato il brevetto della grandissima invenzione per la quale lo perseguitano. Indubbiamente questa concezione della conflittualità genitoriale urta con una certa radicalità contro tutto un corteo di presupposti, premesse, canoni culturali, idee, teorie, nonché di interessi, della nostra società, e soprattutto con la percezione che tra due soggetti in conflitto (il discorso è infatti lo stesso sia se pensiamo a due genitori, sia se pensiamo ad altri soggetti contrapposti: società, gruppi, nazioni) esistano nessi che siano quelli della “ragione” e della “oggettività”, e non della solidarietà. Per quanto riguarda il problema della “conflittualità genitoriale”, quel che ci sembra paradossale è come mai non diventi operativa a livello sociale la percezione (o la considerazione), in fondo tanto banale quanto condivisa, che due genitori in conflitto sviluppano atteggiamenti psicologici disfunzionali a sé stessi e ai propri figli. L’impossibilità di raggiungere un accordo, e la conflittualità che ne emerge, potrebbero essere con non troppa difficoltà inquadrati come Disturbo da Separazione Genitoriale, e ricevere comunque una dignità nosografica, e terapeutica, adeguata. E’ evidente che il focus dell’attenzione clinica andrebbe spostato sulla dimensione relazionale piuttosto che su quella dei singoli, ma questo non appare essere un grande problema, essendo già abbondantemente praticate forme di intervento clinico in disagi del genere.
Quello che appare molto arduo è trasformare una cultura che fa della contesa per i vantaggi del singolo uno strumento di vantaggi professionali e culturali di molti e, dunque, nell’incidere con vaste trasformazioni su una cultura che vede nella divisione dei vantaggi e dei diritti, e non nella condivisione delle risorse, la soluzione ai propri problemi.