LA PSICOTERAPIA COME ATTO ETICO IN UNA DIMENSIONE TRANSCONTESTUALE – Quarta parte


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IL SETTING INDIVIDUALE

Nel setting individuale valgono di fondo le stesse premesse epistemologiche e culturali dei gruppi di VMT.

Per utilizzare una metafora, considero il setting un palcoscenico in cui il paziente viene a mettere in scena sé stesso – cioè a raccontarsi. A questa narrazione lo psicoterapeuta partecipa attraverso il proprio personaggio, e in modo che i suoi comportamenti creino quella che un osservatore esterno può definire come “comunicazione” col paziente.

Riprendendo il discorso già fatto circa la funzione del linguaggio, occorre infatti notare, a proposito di quel fenomeno che spieghiamo con il termine di “comunicazione”, che:

Se sembra accettabile parlare di informazione nel parlare ordinario, ciò avviene perché chi parla, tacitamente, assume che l’interlocutore sia identico a lui e quindi che egli abbia il suo stesso dominio cognitivo (ciò che non si dà mai), meravigliandosi quando sorge un “fraintendimento”. …. E’ necessario che l’interlocutore scelga dove orientare il suo dominio cognitivo come risultato di una interazione linguistica. Dato che il meccanismo di scelta, come ogni processo neuronale, è dipendente-dallo-stato, lo stato di attività dal quale la scelta (nuovo stato di attività neuronale) deve aver origine restringe le possibili scelte e costituisce uno sfondo di riferimento nell’orientato. Lo stesso vale per chi parla; lo stato di attività dal quale la sua descrizione comunicativa (espressione linguistica) ha origine costituisce lo sfondo di riferimento che specifica la sua scelta. Tutte le interazioni che specificano indipendentemente lo sfondo di riferimento di ciascun interlocutore costituiscono il contesto nel quale ha luogo una data interazione linguistica. Ogni interazione linguistica è così necessariamente dipendente-dal-contesto, e questa dipendenza è strettamente deterministica sia per l’orientatore che per l’orientato, nonostante i diversi sfondi dei due processi. E’ solo per l’osservatore che vi è qualche ambiguità in una interazione linguistica che egli osserva; questo perché egli non ha alcun accesso al contesto nel quale avviene. … Gli stati coordinati di attività neuronale che specificano una condotta come una serie di stati effettori e ricettori, il cui significato ha origine in un dominio consensuale, non differiscono nella loro generazione fisiologica da altri stati coordinati di attività neuronale che specificano altre condotte di significato innato o acquisito (camminare, volare, suonare uno strumento musicale). Così, per quanto complesse possano essere le coordinazioni motorie e sensorie del parlare, la peculiarità del comportamento linguistico non sta nella complessità o natura della serie di stati effettori e ricettori che la costituiscono, ma nella rilevanza che tale comportamento acquisisce per il mantenimento della circolarità fondamentale degli organismi interagenti attraverso lo sviluppo del dominio consensuale di interazioni orientanti. Parlare, camminare, o fare della musica non differiscono nella natura dei processi neuronali coordinati che li specificano ma nei sottodomini di interazioni nei quali acquisiscono la loro rilevanza.” (Maturana e Varela, 1985, pag. 81 e segg.).

E ciò spiega perché i linguaggi della psicoterapia possono essere infiniti ma funzionano: vengono articolati secondo le regole del contesto che li significa.

Attraverso tali linguaggi, lo “psicoterapeuta” crea la possibilità che i propri comportamenti costituiscano per l’altro la possibilità di nuovi comportamenti autorientanti:

Ai fini di un cambiamento terapeutico, sembra essere indispensabile la presenza simultanea di due processi basici seppur variabili per intensità e struttura: a) un effetto discrepante (derivante dalla spiegazione offerta dal terapeuta), in grado di innescare una modificazione apprezzabile del punto di vista che il paziente assume abitualmente su di sé; b) un livello apprezzabile di coinvolgimento emotivo nella relazione terapeutica.

Una analisi più dettagliata di questi processi può aiutare a chiarire il modo in cui essi sono correlati.

a) l’efficacia terapeutica delle spiegazioni e interpretazioni del terapeuta, più che dallo specifico contenuto di conoscenza offerto, dipende dal grado di discrepanza che esse hanno rispetto alla percezione abituale che il paziente ha di sé. Al contrario di quanto tradizionalmente supposto, quindi, l’effetto cruciale non è riconducibile ad una trasmissione di dati di conoscenza migliore o più razionale, ma piuttosto all’emergere di tonalità emotive perturbanti che, modificando il fluire dell’esperienza immediata, vincolano il paziente a una ri-valutazione dell’immagine di sé in corso; tale ri-valutazione a sua volta, comporta una modificazione del livello di consapevolezza che avvia un ri-ordinamento di quella stessa immagine. Tuttavia, anche se la disponibilità di spiegazione o riformulazione a effetto discrepante è una condizione necessaria per attivare perturbazioni critiche, essa, di per sé, non è sufficiente per innescare un processo di ri-organizzazione;

b) un livello apprezzabile di coinvolgimento emotivo nella relazione terapeutica pone il paziente nella condizione di non poter assolutamente evitare il confronto con un punto di vista critico e alternativo, costringendolo anzi a quell’autoriferimento immediato e globale da cui ha origine il senso stesso di discrepanza. A prescindere dal suo specifico contenuto, quindi, una spiegazione critica può assumere un effetto discrepante in funzione del livello di autoreferenzialità consentitogli dal contesto relazionale ed emotivo che si è andato strutturando. E’ esperienza comune, del resto, che il grado di incidenza di un messaggio dipende dalla qualità dell’interazione in corso: una critica rivoltaci da una persona che ci è indifferente di solito non ci scalfisce nemmeno e, spesso, può avere addirittura un effetto “paradossalmente” confermante. Se la stessa critica ci fosse rivolta da una figura estremamente significativa ci farebbe con ogni probabilità precipitare in una crisi profonda.

Non bisogna tuttavia ritenere che la necessarietà del coinvolgimento emotivo sia qualcosa che riguardi esclusivamente il paziente; al contrario, il coinvolgimento dello psicoterapeuta nel setting svolge un ruolo nell’attivare nel paziente quella condizione di autoreferenzialità inevitabile precedentemente descritta. La psicolinguistica dell’ultimo decennio ha più volte fatto rilevare il ruolo cruciale che il coinvolgimento emotivo esercita sia nella strutturazione degli atti linguistici sia nel grado di efficacia che questi finiscono con l’assumere nel setting comunicativo. A parte il contenuto della transizione in atto, solo uno specifico impegno emotivo da parte dello speaker può garantire che egli è disposto a trarre tutte le conseguenze contenute nella offerta che avanza e solo questo rende credibile l’offerta nella audience che la riceve. In questo senso, il coinvolgimento emotivo in ciò che lo psicoterapeuta fa o dice proprio come la variabile critica che rendendo “credibile” la spiegazione offerta, attiva nel paziente quell’autoriferimento obbligato e inevitabile di cui si è parlato.

Questo modo di porre il problema del cambiamento configura un ruolo dello psicoterapeuta come perturbatore strategicamente orientato; vale a dire quello di un professionista che mentre è “tecnicamente” proteso a modificare i pattern di consapevolezza del paziente all’interno della strategia che sta portando avanti, è estremamente attento a utilizzare le oscillazioni emotive che osserva in lui per facilitare la comprensione e l’assimilazione di quanto si va man mano ricostruendo“. (Guidano, 1992, pag. 106 e segg.)

Per quanto mi riguarda, il mio intento è far sì che la discrepanza nella percezione abituale che il paziente ha di sé, emerga non solo da “spiegazioni” ma anche da “eventi” dotati di tonalità emotive perturbanti – creati o proposti da me e i quali modificando il flusso dell’esperienza immediata che il paziente ha di sé, lo coinvolgano quanto più inesorabilmente possibile in una ricostruzione della propria immagine di sé. Processo questo che potrà comunque sempre essere accompagnato da interventi linguistici e “spiegazioni” adeguate.

Voglio però ulteriormente sottolineare, che per me la differenza fra “spiegazioni” ed “eventi”  del tutto virtuale: parafrasando Gill, ogni spiegazione è un evento quanto ogni evento è una spiegazione. Di fondo, come più volte ripetuto, il nodo centrale della conoscenza – e dunque del cambiamento in psicoterapia – si basa sull’assunto che ogni comportamento è conoscenza.

Per utilizzare comunque un’altra metafora, considero il “paziente” come un autore che – nello studio dello psicoterapeuta – metta in scena la sua scrittura del proprio personaggio: la Psicoterapia è dunque una forma di Teatro quanto il Teatro è una forma di Psicoterapia. Compito dello psicoterapeuta è diventare un altro personaggio di questa rappresentazione e far sì che il personaggio modifichi il modo con cui è autore di sé stesso. Da questo punto di vista, agisco all’interno di una messa in scena per modificare le regole con cui viene scritta e realizzata, l’esistenza che essa descrive.

In tale compito, ho una sorta di vantaggio su quello che definisco “paziente”: posso scrivere la mia parte mentre la recito, perché non narro “me stesso”, ma il mio ruolo di “psicoterapeuta”: posso così ideare e mettere in scena le mosse di un personaggio che diventa funzionale al cambiamento di chi ho di fronte.

I miei limiti – i limiti di questo personaggio che è “lo psicoterapeuta” – sono dunque solo limiti etici: il mio spazio non è il palcoscenico del setting, inteso come spazio fisico e pratico, ma la nostra relazione. Conseguentemente, devo e posso dire e fare qualunque cosa secondo me è utile a generare un cambiamento positivo nel “paziente”.

Questo non significa che non esistono regole: esistono regole etiche, ed esistono regole pragmatiche per cominciare questo tipo di relazione.

Le mie regole sono queste

La maggior parte delle sedute viene condotta con la tecnica vis a vis, in studio, ma ciò non significa che non si possono utilizzare altri luoghi, o affiancare agli incontri di persona altri tipi di interazione: negli ultimi anni, stante soprattutto lo sviluppo della comunicazione telematica, ho utilizzato – ma sempre nell’ambito di un contesto puntualizzato da sedute individuali a scadenza fissa – l’uso di email e di altri messaggi elettronici: l’invio di file audio o video o l’incontro in “chat” private sono modalità usuali di rapporto col “paziente”. Da questo punto di vista, la comunicazione telematica non può sostituire affatto il rapporto ad personam con incontri regolari, ma – affiancandolo – crea comunicazioni di incisività non indifferente: attualmente, sto mettendo a punto, per un “paziente” che per motivi poco influenzabili dalla sua volontà avrà difficoltà a venire settimanalmente al mio studio, un setting basato principalmente sull’interazione via email.

Le sedute individuali iniziano dopo uno o due colloqui preliminari, che hanno lo scopo di fornire al terapeuta il primo inquadramento del caso. Al termine di questi colloqui viene fissato quello che è un vero e proprio contratto terapeutico. Tale contratto prevede regole ben definite, che potranno poi essere modificate in modo più o meno elastico – il che è comunicato al paziente sin dalla prima seduta. E’ implicito in tale comunicazione che la conduzione del setting sarà sempre saldamente nelle mani dello psicoterapeuta e che ogni cambiamento avverrà in diretta relazione del processo psicoterapeutico.

Usualmente, inizio con una seduta a settimana, ma in casi più “impegnativi” posso incontrare il paziente anche due volte a settimana. Anche se ciò avviene raramente, mi riservo la possibilità di modificare col tempo la frequenza delle sedute, e avverto anche che – nel caso – il mio onorario complessivo non varierà in misura proporzionale. A seconda dei casi, stabilisco esplicitamente – o non ne faccio menzione – se le sedute non svolte per assenza del paziente debbono essere pagate. Il criterio discriminante è se chi ho davanti mi appare o no abbisognare di una concretizzazione della propria responsabilità ad assumere un impegno.

In tal caso, uso la classica metafora del “noleggio dell’ora”: che la si utilizzi o no, quella quota di tempo è sempre a disposizione – come lo possono essere un appartamento, un auto, o un altro oggetto noleggiati – del “paziente”.

Come detto precedentemente, la maggior parte delle sedute avviene con la tecnica vis a vis, e consta di colloqui durante i quali il paziente (o la famiglia) in terapia, discutono i propri problemi e quanto accaduto loro nell’intervallo di tempo che li separa dall’ultima seduta.

Durante la seduta, procedo sia con la tecnica dell’ “autoosservazione” (Guidano, 1992), sia operando prescrizioni comportamentali (di tipo strategico o paradossale). Quello che io introduco nella tecnica descritta da Guidano è una ampia possibilità del terapeuta di intervenire con i più differenti stili comunicativi per facilitare – da altre prospettive – la ri-descrizione del paziente.

Allo psicoterapeuta serio e professionale si affiancano dunque quelli che possono essere considerati come veri e propri personaggi, di volta in volta emergenti dalla relazione col paziente. Il risultato cui tendo è sempre quello di facilitare – appunto attraverso l’emergere di inusuali stili comunicativi – quella “discrepanza” rispetto all’usuale opinione che di sé ha il paziente e che lo può portare a cambiare. Da questo punto di vista, una buona metafora è quella della recita a soggetto.

Di volta in volta compaiono così nel set/setting della “psicoterapia” più o meno differenti personaggi (nel senso di differenti modi del terapeuta di proporsi e commentare verbalmente e non verbalmente il racconto del “paziente”) destinati a connotare da un altro punto di vista le affermazioni di costui che meritano di essere ridiscusse in base a quel che ciascun intervento – e lo stile con cui viene proposto – suggerisce.

Condizione essenziale per questo tipo di conduzione del colloquio è la continua connotazione, esplicitata come tale al “paziente”, che lo “psicoterapeuta” recita a soggetto una parte che sa di essere tale: che si arrabbi, rida, scherzi, faccia il serio professionista, il paziente lo deve sempre riconoscere come un personaggio che partecipa alla sua messa in scena come tale e – come tale – connota il suo partecipare ad un gioco. In questo senso, per ritornare alla metafora del Monopoli, il terapeuta deve sempre ricordarsi – e far presente al “paziente” – che sta giocando con dei soldi che non sono gli stessi della vita reale, anche se le transazioni in atto riguardano emozioni e affetti identici.

Questa modalità di conduzione del setting – che affronteremo più approfonditamente in seguito – sfocia come detto, e preferibilmente nel modo più inavvertibile possibile – in una vasta gamma di potenziali prescrizioni strategiche e paradossali che hanno lo scopo di far esperire al paziente un’altra faccia di sé stesso. O – per meglio dire – che lo impegnino in una sorta di “judo” psicologico, nel quale ogni asserzione deve essere vissuta anche nelle premesse che la generano e, soprattutto, nella incoerenza con l’immagine che di sé ha il paziente che possano far intravedere.

Tale genere di interventi o prescrizioni comincia di fatto dal momento in cui si inizia la terapia. Pertanto, il numero settimanale delle sedute, l’onorario da corrispondermi, i vari aspetti del contratto terapeutico, devono essere stabiliti proprio in quest’ottica: tutto, di fondo, in una psicoterapia è una soluzione individuale e relativa al caso in questione. Anche il prezzo non deve costituire un problema (non un problema economico, se mi si passa la battuta), e preferisco sempre inventare una soluzione in più per creare un cambiamento.

Al riguardo, accetto anche pazienti che, in caso di gravi difficoltà economiche, possano non pagare tutta o parte del mio onorario; d’altra parte, ho un illustre antecedente in Freud, che – come detto – curò gratis “L’uomo dei lupi” e altri quattro o cinque pazienti.

Il punto chiave, in casi del genere, è che occorre rinunciare all’idea che la contropartita alla terapia debba essere solo in denaro e solo a giovamento dello psicoterapeuta (e tenendo conto che personalmente lavoro esclusivamente come libero professionista). Se si modificano tali premesse, si possono sviluppare interessanti possibilità operative.

In tal modo, in caso di gravi difficoltà economiche, posso così proporre al paziente – a seconda del “profilo psicologico” che mi sembra di intravedere – due possibili soluzioni: o egli si impegna a dare una contropartita in termini di prestazione simbolica, o una in termini di impegno personale. Da questo punto di vista, utilizzo – per decidere – un riferimento per cosi dire “sistemico”. Se mi sembra che il paziente tende a sconfermare l’altro (o me), nella relazione, opto per la prima soluzione, il che si concretizza nel suo dover mettere a mia disposizione due o tre ore settimanali (in genere una mezza mattina – mai di più) per incombenze di segreteria. La stessa logica, la utilizzo se sospetto l’esistenza nella sua vita di una madre troppo generosa e oblativa, o comunque di un clima familiare in cui la protezione dalla frustrazione e dall’impegno fosse predominante e – soprattutto – funzionale al mantenimento di un clima di invischiamento familiare. Una variante molto interessante, specie se mi aspetto “proiezioni” legate alla avidità o al possesso, è il volontariato presso terzi, che in questo caso potrà essere pesante e oneroso.

Se sospetto invece (nella famiglia d’origine – in genere il paziente con difficoltà economiche è un paziente giovane – o anche nella sua vita coniugale o, in generale nel suo atteggiamento verso sé stesso) un tema di trascuratezza, disistima, difficile valorizzazione di sé, concordo con lui una contropartita basata su una attività rivolta a sé stesso. Una di queste può essere quella suggerita già da tempo da uno psicanalista americano, che scrisse un volume molto interessante insieme ad una sua paziente. Costei, impossibilitata a pagarsi l’analisi per motivi economici, si impegnò col suo analista a dare come contropartita un suo resoconto delle loro sedute – in vista appunto di una futura pubblicazione Nacque così un libro in cui l’analisi era raccontata dalla prospettiva dello psicanalista e da quello del paziente (I.D. Yalom, G. Elkin, 1976).

Ovviamente, il mio fine non è la pubblicazione di un libro, ma un impegno a fare un “qualcosa” che abbia un senso come lavoro “psicologico” o, anche (e preferibilmente), come lavoro concreto svolto come impegno verso sé stesso.

Con diversi pazienti, ho applicato anche una sorta di “beneficenza a termini”: in cambio delle sedute svolte gratuitamente, costoro devono impegnarsi a cercarsi un lavoro entro un determinato numero di mesi (che variava in modo inversamente proporzionale all’impegno che dimostravano nel volerlo cercare). Se non riuscivano a trovarlo, dovevano saldare le sedute non pagate; se lo trovavano, la cifra veniva invece abbonata. Chiaramente, si tratta dunque di una sorta di invito a investire su sé stessi e sulla propria capacità di assumere impegni e responsabilità; conseguentemente, una tale proposta implica la necessità di una approfondita riflessione verbale sulla capacità di assumere impegni e responsabilità.

Ritornando dunque da questo (importante, in terapia) argomento a quanto se ne può dedurre su livelli più generali, occorre dire come non si possa pensare all’utilizzo di questi “linguaggi” così “atipici” rispetto a quello che si può aspettare oggi un paziente in cerca di psicoterapia, senza accompagnare interventi del genere con una riflessione sul significato degli eventi che si creano con essi, e sugli orizzonti che possono spalancare al paziente: da questo punto di vista, la psicoterapia diventa un teatro in cui si recita dunque un continuo andirivieni tra esperire e spiegare se stessi.

Uso dunque, con una certa frequenza, il denaro come linguaggio della terapia, perché essendo un linguaggio abbastanza ascoltato, si presta bene a veicolare significati di consapevolezza. L’assunto chiave è però rinunciarvi come vantaggio personale e dissolvere il concetto che la spesa del paziente debba di necessità essere un vantaggio per lo psicoterapeuta. In questo senso, uso non raramente tre “mosse” fondamentali, delle quali adatto ad ogni caso le necessarie varianti.

La prima è la “scommessa” di una cifra in denaro; la seconda è la rinuncia all’onorario, la terza è la beneficenza. Da questo punto di vista, ritengo infatti che un po’ di impegno sociale o etico non guasti, in un setting psicoterapeutico.

Come detto, l’assunto di base è quello secondo cui il denaro è un linguaggio condiviso molto importante, e la rinunzia all’alternativa fra il fatto che lo può ricevere solo lo psicoterapeuta o il paziente non lo dà affatto, apre la porta a molte strategie psicoterapiche, perché svincola il denaro dall’essere al tempo stesso il linguaggio del guadagno e quello dell’impegno.

La “scommessa” è esattamente una scommessa in denaro, in cui lo psicoterapeuta viene coinvolto in prima persona: scommette sull’esito di un certo avvenimento o sul risultato di un certo comportamento o di una certa prescrizione. Se perde, svolgerà una seduta gratis; se vince, il paziente (o la famiglia in terapia) devolveranno in beneficenza (salvo casi particolari) una certa somma, che in genere ammonta all’onorario di una seduta.

Il beneficiario della scommessa, un ente o una istituzione conosciuta di beneficenza, può avere una sua carica simbolica. Scommettere ad esempio con un fobico – terrorizzato dall’idea di avere un cancro – che se l’esito delle analisi cui si vuol di forza sottoporre sarà negativo, dovrà versare una – anche gravosa – cifra ad un Istituto di ricerche per il cancro, è un modo per mettere in discussione sia il costo “psicologico” delle sue fobie, sia la loro distanza dalla “realtà” cui le riferisce (nel senso della mia spiegazione della “fobia”: non un errore nella “percezione” della realtà, ma una confusione fra diversi domini di esistenza).

Da questo punto di vista, il limite è nella fantasia – e nella “generosità” del paziente (con tutte le implicazioni “kleiniane” che possiamo intravedere – e dunque discutere – nella sua eventuale riluttanza). Ad esempio, ricordo qui il caso – cui ho accennato poc’anzi – della “paziente che non c’è” – vale a dire di quella giovane donna che seguo facendo venire in terapia solo la famiglia dopo che la terapia breve cui è stata sottoposta dietro mio consiglio si è dimostrata sia breve sia poco terapeutica.

La madre ed il padre di questa ragazza sono esponenti di spicco della locale parrocchia e grandi interpreti di quell’arte che Minuchin ha definito da tempo “invischiamento” (Minuchin et al., 1980).

Allorché l’altra figlia – di poco più giovane della paziente – andò a vivere con un uomo senza essere sposata (cosa che scocciava moltissimo ai genitori, per via delle loro idee in tema di morale e immagine sociale) scommisi con loro che nel giro di poco tempo la paziente designata avrebbe perso l’ennesimo lavoro nel tentativo di ristabilire il suo potere patologico all’interno della famiglia (un potere turbato dalla crisi – e dalla relativa attenzione – che la sorella induceva in tal modo nei genitori).

Scommettemmo così il prezzo di due sedute: se la crisi si fosse verificata, la famiglia avrebbe pagato, oltre al mio normale onorario, tale somma; se la crisi invece non si fosse avuta, io avrei rinunciato ad essere pagato per due appuntamenti di seguito. Nel caso avessi “vinto” io, però, la vincita non sarebbe ovviamente andata a me ma ad un ente di beneficenza: una cooperativa che si occupa dell’assistenza a ex prostitute, essendo la famiglia della paziente molto religiosa e molto percorsa da istanze morali.

La crisi non ci fu e – se mi si passa la battuta – secondo me perché la mia famiglia non voleva spendere una lira di più per la figlia, e specie a favore di un circolo di ex prostitute.

Svolsi dunque gratuitamente le mie due sedute.

Un’altra volta in cui applicai una scommessa simile fu allorché il padre di un ragazzo etichettato come “schizofrenico” cominciò a dire che il figlio non trovava lavoro perché – vedendo i genitori andare dallo “psicoterapeuta” per curarlo – ne sentiva la totale sfiducia. Era inutile tentare di ragionare sul fatto che l’eventuale sfiducia, se anche esisteva in quella famiglia qualcosa di spiegabile in tali termini, non era espressa e dimostrata dal solo loro venire alle sedute: tra l’altro, il ragazzo aveva da tempo superato la trentina, aveva cominciato il suo iter da “psicotico” da nove anni, ma la famiglia era in psicoterapia da uno e mezzo. Sino a quel momento, il ragazzo era stato curato con i farmaci prescritti da altro psichiatra e che gli venivano dati di nascosto. Successivamente, i suoi genitori si erano rivolti a me, ma dopo pochissime sedute il ragazzo non era più venuto agli incontri, perché – ovviamente – non ne aveva bisogno.

In realtà, dopo diversi mesi erano cominciati dei miglioramenti: il delirio era receduto del tutto, i farmaci erano stati sospesi, il ragazzo si mostrava – più che “psicotico” – perennemente arrabbiato e sempre dedito a non far nulla dalla mattina alla sera.

Di fatto, la grande capacità di questa famiglia era quella di non assumersi mai la responsabilità di una posizione: il figlio “psicotico” era il perfetto risultato di tale logica, nella quale nessuno assumeva un ruolo o prendeva una decisione che lo portasse poi a poter esperire un rifiuto o una accettazione da parte dell’altro, o, anche, un risultato negativo di cui rispondere in prima persona. Il ragazzo si poteva dunque permettere di tutto senza che nessuno gli contestasse mai, nei fatti, alcunché: né il padre né la madre avevano mai avuto il coraggio di una critica o di un rimprovero – soprattutto verso questo figlio, considerato da sempre “intelligentissimo” – e qualunque cosa egli facesse era accompagnata da sospiri o malumori negati e mai espressi come tali. Ma nessuno appunto gli aveva mai imposto o negato alcunché: il poveretto aveva sempre navigato in una terra di nessuno in cui tutto era possibile e non vi era alcun obbligo per lui.

Anche in questo caso, avevo applicato diverse tecniche: la coppia genitoriale doveva eseguire la c.d. “Prescrizione invariabile multipla” (Selvini-Palazzoli, 1988), mentre nelle sedute (settimanali), i due genitori discutevano – con la tecnica della “autoosservazione” (Guidano, 1992), i propri comportamenti verso il figlio. Di volta in volta, prescrivevo (sempre ai soli genitori, dal momento che il figlio non veniva in terapia) dei comportamenti destinati ad alterare le loro modalità interattive sul figlio – comportamenti tutti tesi a sottolineare (come la “Prescrizione invariabile multipla”) l’autonomia e la demarcazione del figlio dalla coppia genitoriale/coniugale.

Al momento in cui il padre espresse i suoi dubbi sulla terapia, dubbi che avevano peraltro sempre animato la sua partecipazione alle sedute, il figlio aveva per l’ennesima volta rinunciato ad un lavoro, perché non lo reputava alla sua altezza. In realtà il titolo di studio conseguito (aveva fallito tre Facoltà, ciascuna dopo pochi esami) non gli permetteva altro che lavori di livello da lui definito comunque scadente.

Feci passare qualche seduta, e proposi la seguente strategia, chiedendo loro di discuterla e rispondermi nell’appuntamento successivo. La famiglia avrebbe sospeso le sedute per qualche mese. Se nel frattempo il figlio trovava lavoro – che avrebbe conservato poi per qualche mese – io avrei ridato loro la cifra corrispondente alle sedute svolte a partire dall’ultimo licenziamento.

Se invece il ragazzo non avesse trovato lavoro, la famiglia avrebbe pagato tutte le sedute che non aveva svolto. Dal momento che si trattava di una assunzione di responsabilità, questa fu l’unica volta in cui un gioco simile avrebbe comportato un mio vantaggio diretto, che peraltro consisteva nel vedere onorato il contratto terapeutico stabilito all’inizio e secondo il quale la famiglia avrebbe pagato anche le sedute cui non veniva.

La famiglia rimase sconvolta da tale idea. E accadde pure un fatto molto indicativo, che a mio avviso non sarebbe stato tanto facilmente osservabile senza tale proposta. Fino a quel momento, infatti, il padre era sembrato il più timoroso a prendere decisioni e posizioni, e la persona “di nerbo” appariva la madre del paziente. In quell’occasione invece le parti si capovolsero. La signora cominciò a dire che lei preferiva venire in terapia ed eseguire i compiti che io affidavo loro, mentre il padre mostrò una sicurezza mai avuta prima, e si dichiarò pronto a lanciarsi nell’impresa.

Cito per esteso tale caso perché è il classico esempio di come una prescrizione comportamentale possa generare quella che è definibile come una “presa di coscienza”. Fu infatti in quel momento che la madre del paziente designato si rese conto come aveva sempre coperto la propria angoscia di decidere per non sbagliare e non generare scontenti e rifiuti, attraverso la strumentalizzazione di una analoga, ma più esplicita, modalità interattiva del marito, da lei da sempre accusato (ovviamente anche di fronte ai figli) di essere incapace a prendere decisioni e di fuggire dalle responsabilità della famiglia.

Il ragazzo, passati i due mesi, non trovò lavoro. Ciò permise però di discutere con molta dovizia di particolari e di partecipazione come i due genitori riuscivano a non assumersi responsabilità, a non decidere nulla, a non prendere mai una posizione che li esponesse a un consenso o ad un rifiuto, e di come tutto ciò si fosse riversato sul figlio, divenuto così “psicotico”.

La rinuncia all’onorario, invece, può essere un utile “colpo di mano” in caso di “pazienti” capaci, per così dire, di monetizzare la seduta. Si tratta di un classico esempio di come il setting possa esser considerato un palcoscenico su cui intervenire con mosse estemporanee, destinate ad essere sia utilizzate per una adeguata – quanto obbligatoria – elaborazione da parte del paziente, sia seguite da una codifica che ne permetta l’utilizzo anche in relazioni differenti da quelle in cui sono emerse, sempre però celate esclusivamente nella realtà di queste. .

Il “paziente” con cui ho utilizzato tale tecnica era affetto da una forma definibile come “depressiva”, cui non mancavano però tratti rivendicatori molto forti. Era figlio di una famiglia molto ricca, e non lavorava – potendosi permettere il lusso di vivere di rendita. Quel che gli veniva da poderosi investimenti e giacenze di famiglia era più che sufficiente per una vita molto agiata, cui non mancava anche l’ostentazione dei titoli nobiliari della stirpe.

Sin da quando arrivò al mio studio, il “conte” non mancò di farmi notare le pecche di immagine che vi trovava: di suo, era abituato a studi lussuosissimi e nomi di livello internazionale. Ne aveva già consultato diversi, a livello psichiatrico, ma dopo un po’ li aveva abbandonati, con i motivi più svariati.

Durante le sedute, non mancava mai di farmi notare le pecche e le trascuratezze che notava nello studio, le cadute di immagine e decoro cui a suo dire sarei andato incontro per un accostamento di colori non felicissimo e un capo non elegantissimo.

Sua abitudine era quella di terminare la seduta firmando un assegno con la firma svolazzante e veloce, ostentando sempre che per lui quelle erano briciole – ma non serviva a nulla spenderle.

Le annotazioni sull’immagine e l’abbigliamento si dissolsero quando lo nominai mio maggiordomo, con l’incarico di farmi notare – prima di cominciare ogni seduta – qualsiasi cosa che non andasse nel mio abbigliamento o nell’arredamento. Ad ogni appuntamento, lo costringevo ad elencarmi tutti i difetti che incontrava e i suggerimenti in merito, e ben presto si rese conto che il fatto che l’ascoltassi con interesse (perché sicuramente più versato di me nella materia) lo costringeva ad ammettere che non riusciva sempre a rendersi antipatico come voleva, ma anche apprezzato e apprezzabile.

Una volta però che aveva passato tutta la seduta a ribattere ogni connotazione positiva con cui spiegavo i suoi comportamenti, non ne potetti più: e quando fece il gesto di pagare gli dissi chiaro e tondo che questa volta non gli permettevo di farlo: non se lo meritava, gli spiegai.

Gli dissi anche che quello che vendevo io non aveva un valore in denaro, e che se non era in grado di prenderselo era inutile che pagasse.

Mi guardò come se fossi impazzito: non voleva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie, e tentò di riempire comunque l’assegno. Fui fermissimo, e gli ripetei con molta cura i miei concetti. Lui cercò disperatamente una via d’uscita mettendomi sul tavolo tutto il suo carnet d’assegni e dicendomi che lo lasciava lì, in bianco. Firmassi e prelevassi quel che volevo.

Gli rimisi il blocchetto nella giacca, mentre lui si accasciava sulla sedia quasi completamente svuotato d’ogni energia, e gli feci notare, non senza malizia, che se l’avessi fatto, mi avrebbero arrestato immediatamente per circonvenzione d’incapace – sottintendendo che se l’incapace era appunto lui.

Fece per rimettermi in mano gli assegni, ma mi opposi ancora più drasticamente e gli dissi che stavolta doveva andarsene a casa senza poter pagare.

Riuscì a guardarmi con una faccia implorante, e a sussurrare soltanto:

– Lei così mi ammazza -.

Gli feci di sì con la testa, gli chiesi con molta serietà se dovevo aprigli la finestra per facilitargli il suicidio, e visto che restava fermo lo accompagnai alla porta:

– Se ci riesce, sopravviva fino alla prossima seduta – gli dissi salutandolo.

E’ chiaro che agli psicoanalisti ortodossi, questo può sembrare un azzardato agito dello psicoterapeuta, o un colpo pericolosamente duro alle “resistenze” del “paziente”.

Per quanto mi riguarda, è uno dei modi per mettere in scena quella che potrebbe essere una interpretazione psicanalitica – più o meno esatta come tale, ma facilmente sconfermabile dal paziente. La mia messa in scena – operata in un contesto in cui io definisco la relazione – rende ragione al paziente della “discrepanza” di cui ho detto (e che per me è uno dei modi per creare quello che in psicanalisi ortodossa si definisce “insight”).

E’ chiaro che a tali uscite devono seguire delle elaborazioni psicologiche “profonde” ed efficaci, che facciano sì che il “paziente” possa discutere approfonditamente quell’osservarsi da altre premesse che, con queste strategie, gli si è provocato.

Da questo punto di vista, posso dire che il silenzio analitico, (o il rifiuto di “agire” nel setting ortodosso – un rifiuto come visto del tutto estraneo alla prassi di Freud), sono interventi teatrali con una loro dignità, ma in qualche modo logorati “dal tempo” – cioè dalla capacità della nostra cultura di renderli inefficaci perché ormai rappresentati infinite volte. Ciò non significa che non hanno effetto o ragion d’essere, ma che devono essere ricondotti alla loro natura di strumenti di una comunicazione in grado di alterare la nostra capacità di oggettivare il nostro modo di osservare noi stessi e il mondo.

Di fatto, il “conte” uscì indubbiamente molto scosso dal mio rifiuto di fargli pagare la seduta, e di sicuro questo aprì una breccia nella sua percezione di sé stesso e del mondo – monoliticamente costruita sull’idea di poter sfuggire al mettersi in discussione attraverso ciò che possedeva. Indubbiamente, crebbe anche la sua stima nei miei confronti, e ciò significava che crebbe anche quella verso sé stesso.

Da quel momento, ho utilizzato diverse volte – anche con altri pazienti – la minaccia (qualche volta eseguita) di non far pagare la seduta a chi “non se lo merita”.

Indubbiamente, non sempre queste uscite sono efficaci, e qualche volta possono anche creare intoppi di qualche rilievo in un processo psicoterapico: ma sicuramente in percentuale infinitamente minore di quello che un analista ortodosso si aspetterebbe, e con risultati a volte impensabili.

La terza mossa cui ho accennato prima, cioè la “beneficenza”, è una forma di variante delle precedenti due mosse. La applico allorché considero opportuno modificare la regola delle sedute non svolte.

Se non ho espressamente previsto che vadano saldate anche le sedute cui il “paziente” non viene, e ravviso invece l’opportunità di cominciare a fargliele saldare, dapprima avverto il paziente che in caso di ulteriori assenze, specie se non precedute da preavviso, comincerò a farle pagare.

Su qualunque risposta o considerazione del “paziente”, chiarisco appunto che la relativa cifra andrà in beneficenza: e in genere aggiungo una punta di ironia o di “senso delle proporzioni” nello stabilire l’ente beneficiario della relativa donazione. Dire a qualcuno che i bambini vittime di massacri, stupri, guerre varie possono beneficiare dal suo rifiuto di recarsi puntualmente a curare i propri problemi psicologici, fa sempre uno strano effetto al malato. Una volta che ebbi lo stesso problema con una ragazza considerata come affetta da Sindrome di Personalità Schizoide, le suggerii di inviare il denaro ad un fondo pro-terremotati: sicuramente più disastrati di te, le spiegai.

Il mio parere in proposito è che una mossa di questo genere è in grado di far porre a chi la riceve molte domande su sé stesso.

Un’altra mossa che ogni tanto eseguo è l’interruzione “a tempo” del trattamento: il “paziente” viene avvertito che se non risolve un determinato problema, è bene che non si presenti più fino a che da solo non riesce a superare l’impasse. Utilizzo questa tecnica (o questa minaccia, perché spesso basta solo anticipare l’intenzione della sospensione per vedere cambiare le cose) in presenza di impasse apparentemente pratici, che nascondono però temi psicologici ben sostanziosi ma vengono vissuti solo come “dubbi” sulle scelte da prendere. La prima volta che feci tale uscita fu allorché una signora non usciva più dal dilemma sul separarsi o no dal marito. Dopo circa due anni di continui tormenti in proposito (ogni seduta minacciava di lasciare il marito e la seduta dopo si dichiarava vogliosissima di ricominciare tutto con lui), dopo aver più volte discusso con lei di questo suo tran tran e non essere approdato a nulla, le scrissi – senza alcun preavviso – una lettera in cui le comunicavo che sino a che non prendeva una decisione seria e definitiva, non si doveva far rivedere allo studio. Indubbiamente, la terapia – e soprattutto le categorie “analitiche” con cui tendeva a interpretare sé stessa, erano diventate il motivo per cui non cambiare, e la pausa fece più che bene alla donna.

Richiamò dopo quattro o cinque mesi, dichiarando che si era separata e che le cose le andavano meglio. Riammessa al setting, concluse successivamente e con molta soddisfazione la terapia: un esempio del genere indica che, usando in terapia strategie del genere, occorre saper decidere quando l’elaborazione verbale dell’agito psicoterapeutico deve essere condotta fino in fondo, e quando invece un secco silenzio è ancora più efficace.

A parte tali soluzioni, utilizzo anche diverse strategie paradossali codificate: fra queste, con una certa frequenza, il c.d. “Diario di bordo” (Nardone, Watzlawick, 1990), o il gioco “della mela rossa” (Nardone, 1993). Il primo è quasi di prassi in tutte le sindromi di panico o fobiche, e indubbiamente si è rivelato sempre di estrema efficacia. Ma il punto è che quel che io effettivamente applico non è un “protocollo” in quanto tale, ma il mio declinarlo in una relazione che col protocollo ha poco a che fare.

L’altro aspetto del punto di vista col quale opero nel setting, è che colloco sia questa specifica strategia, sia le altre, all’interno di un setting in cui il “paziente” affronta i propri problemi emozionali o relazionali attraverso una continua ridiscussione delle premesse con cui tende a risolverli – dunque di una continua messa in discussione del suo modo di esperire sé stesso.

Il “Diario di bordo” mi si appalesò in tutta la sua potenza allorché un mio paziente, che non usciva da venti anni circa da casa a causa di una penosissima Sindrome di Panico, dopo aver fallito molti concorsi (ai quali era dovuto sempre andare accompagnato dalla madre o dal cugino), riuscì a vincere – proprio perché aveva fatto di tutto per perderlo – quello da Vigile Urbano.

Quando lo seppe, il terrore di dover stare sette ore filate in strada lo attanagliò. Passarono le settimane, il giorno dell’entrata in servizio si avvicinava, e lui era sempre più rintanato dentro casa. E fu proprio in tale circostanza che cominciai a pensare a strategie sempre più eterodosse: d’altra parte, l’età del mio paziente (all’epoca aveva quasi quaranta anni) faceva comprendere molto bene che o si metteva al lavoro adesso, o non ce l’avrebbe più fatta. Lui e i suoi genitori, molto anziani e malandati, vivevano della sola pensione del padre, e la faccenda rischiava di divenire drammatica (tenendo conto che all’epoca i limiti di età per la partecipazione ai concorsi pubblici erano abbastanza ferrei).

Cominciai così a trascorrere le sedute in tutti i luoghi in cui lui aveva paura di andare perché terrorizzato di “sentirsi male” – supermercati, negozi, piazze più o meno affollate. Ogni seduta aveva così un iter quanto meno atipico: il futuro vigile arrivava al mio studio, e – dopo due chiacchiere – uscivamo insieme. Ogni volta gli promettevo che gli sarei rimasto vicino per evitare ogni possibile crisi, ma inevitabilmente, dopo essere giunti nel luogo dove dicevo di dovermi recare (e dopo qualche discussione più o meno ortodossa) facevo perdere le mie tracce.

Per quei minuti che sapevo bastare a produrgli una crisi di panico, mi rendevo introvabile. Quando da lontano mi rendevo conto che la sua crisi stava giungendo al massimo, saltavo fuori dal mio nascondiglio cominciando a gridare che stavo malissimo.

Chiamavo aiuto, e a gran voce domandavo proprio a lui se per caso era un vigile e se poteva aiutarmi perché soffrivo di crisi di panico. Lui si vergognava da morire, ma era costretto a far veramente la scena del vigile che, riconosciuto anche se in borghese, deve aiutare un poveraccio affetto da un attacco di panico a ritornare a casa.

Nel frattempo, nei giorni in cui non veniva in seduta (due a settimana), doveva compilare il classico diario di bordo, annotando fedelmente i suoi sintomi, nonché date, luoghi, durata, modalità degli stessi. Dopo due settimane prese servizio in una delle piazze più affollate e più spaventosamente ampie d’Italia, e non gli successe più nulla. Ha continuato anche lui la “terapia” per un bel po’ di tempo, ogni tanto con una breve ricaduta dei “sintomi”, che si risolveva se non la si prendeva in considerazione. Attualmente sta bene e, ogni tanto, gli chiedo di togliermi qualche multa.

Per quanto riguarda i suoi sintomi, non ha più avuto ricadute.

Ho utilizzato il gioco della “mela rossa” sempre in diverse sindromi di panico, e – in una occasione – in un caso di incoercibile “fobia degli esami”, che merita di essere descritto per l’adattamento che feci di questa prescrizione.

Tale caso riguardava una ragazza che da diversi anni non riusciva a concludere l’Università perché vittima del paralizzante terrore di essere bocciata. Nessuna logica “razionale”, nessun saggio discorso o intervento di parenti e amici riuscivano a sbloccarla. Anche se qualche volta erano riusciti a trascinarla di forza all’Università, lei era sempre riuscita a fuggire.

Quando arrivò al mio studio, mi disse francamente che poteva spendere molto poco ma che aveva bisogno urgente di essere curata.

Le proposi che si impegnasse a pagare solo una delle due sedute a settimana che avremmo svolto. L’altra l’avrebbe contraccambiata con mezza giornata di impegno come aiutante di “segreteria” nel mio studio (compito che in realtà assolse solo una o due volte). Se avesse però saltato una delle due sedute, le avrebbe pagate entrambi.

Dopo poche sedute, le diedi come compito – precedendolo con i discorsi che di solito si fanno per far accettare compiti simili – quello di uscire ogni mattina di casa, recarsi dal fruttivendolo, comprare due mele rosse rosse, sottolineando al negoziante che le voleva veramente belle rosse, e recarsi all’Università. Qui avrebbe dovuto cercare un’aula nella quale si davano esami – di qualsiasi Facoltà. Dopo averla trovata, si sarebbe dovuta interessare allo svolgimento degli esami, sempre giocherellando con le due mele rosse. Avrebbe poi dovuto chiedere ai presenti, mostrando un po’ di ansia, quali erano le domande che i professori stavano facendo, e poi, guardandosi sgomenta in giro, dire a voce alta: – Non riuscirò mai a sostenere questo esame -. A questo punto, avrebbe dovuto far cadere ostentatamente una delle due mele rosse per terra, e scappare ripetendo a voce alta: – No, non lo riuscirò mai a sostenere, questo esame -.

Nel giro di sei mesi la ragazza sostenne il primo esame, e nel giro di un anno circa, fra lo stupore di parenti e amici (e un po’ di rabbia del fidanzato, che la preferiva bisognosa dei suoi consigli), si laureò.

Nel frattempo, la psicoterapia proseguì sempre con cadenza bisettimanale e – per quanto possa sembrare orribile e mefitico a tutti gli schieramenti teorici – di questa psicoterapia fece parte – come fa parte di gran parte delle terapie che conduco – anche la discussione di tematiche “inconsce”, e, soprattutto, l’analisi dei sogni (con categorie jungiane, che divengono spunto per l’auto-osservazione). La ragazza aveva degli evidenti problemi con la figura paterna e i segni di una madre piena di invidia. Vennero elaborati tali temi, e la ragazza non solo superò “strategicamente” il sintomo, ma cambiò molto anche la sua vita: lasciò il precedente fidanzato, che aveva una storia universitaria identica alla sua (non era riuscito a laurearsi in Fisica e stava tentando di laurearsi in Pedagogia pur di avere una laurea) e che, essendosi messo in proprio creando una ditta di Pony Express, ci teneva a far vedere alla ragazza quanto le sue capacità le fossero indispensabili.

Grazie a questo miscuglio psicoterapeutico – per molti infernale, ma per quanto mi riguarda molto funzionale – la ragazza abbandonò questo legame nel quale veniva molto svilita anche ad altri livelli, sciolse molto bene le sue problematiche con la famiglia d’origine, e poco dopo fu chiamata a ricoprire un alto grado nel management di una importante ditta del Nord.

Sottolineo tale risultato perché – come ho espresso in altri termini in precedenti parti di questo articolo – non si può utilizzare l’assunto di Einstein “sono le teorie a decidere cosa si può osservare” solo a senso unico. Nella mia prospettiva, l’interpretazione dei sogni, e le c.d. “prescrizioni paradossali” costituiscono due percorsi differenti per raggiungere lo stesso risultato: la possibilità di ridiscutere i modi con cui creiamo gli “oggetti” di quella che definiamo la nostra conoscenza di noi stessi e del mondo.

Personalmente, ritengo che quello che gli esponenti della Terapia Strategica non vogliono accettare, è che una strategia paradossale può essere spiegata – e sottolineo questo concetto dello “spiegare”, perché ogni spiegazione è data da un osservatore sulla base delle proprie premesse – molto bene in termini “analitici” classici, perché opera dissolvendo “proiezioni”, “coazioni a ripetere” e via di seguito; d’altra parte, vi è un discorso analogo per chi si occupa di teorie del profondo: ogni intervento in psicoterapia è un intervento “strategico”, e non ce n’è stato uno che non sia già stato utilizzato dai primissimi teorici dell’inconscio, a partire appunto da Freud. Tra l’interpretazione come esperienza non correttiva, la “suggestione”, e l’indicazione strategica, non vi può essere differenza se si ammette, come è dimostrabile, che il linguaggio è connotativo e dunque non “trasmette” alcunché.

Quello che indubbiamente occorre rivedere, è la concezione di un inconscio che abbia una sua esistenza fisica ed energetica, cioè che sia uno spazio della mente dotato di energia propria, e non un processo del nostro costruire il mondo, un processo che risulta funzionale al bisogno del nostro sistema nervoso di computare una “realtà” stabile e non creata dal proprio interagire con sé stesso.

Da questo punto di vista, ecco cosa ci dice Maturana circa lo spazio psichico e la stessa relazione dei sogni col loro significato simbolico:

Spazio psichico

Come ho detto, il dominio nel quale viviamo, quello che nella vita quotidiana distinguiamo come lo psichico, quello mentale e quello spirituale, è il dominio delle relazioni e interazioni dell’organismo. Per questo, il dominio psichico o spazio psichico dei diversi organismi varia con il loro modo di vivere, e il sistema nervoso di un animale opera di una maniera o di un’altra secondo lo spazio dell’organismo che integra. In altre parole, l’operare del sistema nervoso di un animale, sebbene occorre come una dinamica chiusa di cambiamenti delle relazioni di attività in un operare che non è commisurabile all’operare dell’organismo nel suo spazio di relazioni, ha senso in quest’ultimo spazio, e si da di una maniera che è mantenuto avendo sentito in queste spazio nel fluire del suo continuo cambiamento. Così, l’operare del nostro sistema nervoso come animali che esistiamo nel linguaggio è tale che dà origine a correlazioni senso-effettrici che hanno il loro senso nel linguaggio, perché il nostro sistema nervoso e il suo operare si sono trasformato – nel corso del nostro vivere – in una maniera coerente con il nostro vivere nel linguaggio. Per quanto detto sino ad ora, sebbene il nostro pensare senza parole scorra nel fluire di quei cambiamenti delle relazioni di attività che costituiscono l’operare del sistema nervoso, accade che il comportamento che sorge da esso come fluire in correlazioni senso-effettrici, è una condotta nel linguaggio

In tutti casi questa relazione generativa fra il sistema nervoso e il comportamento, che collega due domini fenomenici disgiunti e completamente differenti, è ciò che accade in tutto quel che facciamo senza rendere conto. Così, parliamo e il parlare ci sorge nell’operare del nostro sistema nervoso che ha un carattere e una coerenza completamente diversi del carattere e coerenze del linguaggiare che è il parlare. Con i sogni accade lo stesso. Questi sorgono in noi come momenti di vita che hanno un senso nel nostro dominio esperenziale quotidiano di esseri che vivono nel conversare precisamente perché la dinamica di cambiamenti di relazioni di attività nel sistema nervoso che li generano è il risultato della modulazione strutturale di queste come un componente di un organismo il cui spazio relazionale è nel conversare. Non è strano, per tanto, che le esperienze oniriche hanno lo stesso carattere dello spazio psichico del sognatore e che un osservatore possa stabilire relazioni di significato o simboliche fra esse e la vita di relazioni di queste. Possiamo dirlo di un’altra maniera. La vita psichica è il nostro modo di vivere il nostro spazio relazionale come esseri umani, e questo nostro vivere passa per il nostro conversare su il nostro vivere nel conversare, la nostra vita psichica ha elementi simbolici che corrispondono a relazioni di significato che noi stabiliamo come osservatori nel fluire del nostro vivere nel conversare. Così, sebbene il nostro sistema nervoso come rete chiusa di cambiamenti di relazioni di attività opera senza simboli, come risultato di un cambiamento strutturale come componente di un essere umano simbolizzante, il suo operare, sebbene avvenga in dimensioni incomparabili con le dimensioni nelle quali viviamo il nostro linguaggiare, ha senso nel simbolizzare, e i nostri sogni non possono avere altro che il carattere simbolico che viviamo nel nostro spazio psichico di esseri che vivono nel linguaggio, dominio nel quale stabiliamo relazioni simboliche.” (Maturana, 1998, pag. 205 e seg.).

Da questo punto di vista, interpreto i sogni come se esprimessero le alterazioni di cambiamenti di relazioni che si producono allorché il sistema nervoso interagisce con le relazioni simboliche che stabilisce operando nel linguaggio. In altri termini, i sogni esprimerebbero il processo con cui il sistema nervoso crea significati di significati allorché opera con quelle relazioni simboliche che nella veglia vengono esperiti come “realtà” e “autocoscienza”.

E’ questo un altro modo di dire – se si pensa all’inconscio come ad un processo di significazione e non come un luogo di contenuti energetici – che i sogni sono appunto la via regia all’inconscio, perché in ultima analisi esprimono il processo con cui l’interagire del sistema nervoso con i propri stati crea i significati che poi esperiamo come “autocoscienza” e “realtà”.

La mia opinione è dunque quella che in psicoterapia le spiegazioni alle e delle diverse teorie e prassi rimandano in realtà non a differenze esplicabili e dimostrabili in termini di oggettività, ma in termini – come detto precedentemente – di spiegazioni emerse in differenti, ma non fra loro incompatibili, domini di esistenza.

Il punto non è dunque stabilire quali sono le strategie o le teorie giuste, ma ridare ad ogni singolo psicoterapeuta la responsabilità del proprio agire, invece di permettere che essa venga occultata nella oggettivazione teorica.

Quel che resta da chiarire del mio setting, dunque, è che io intravedo una regola generale nel modo di condurre una psicoterapia, e tale regola è nell’immaginare il comportamento dello psicoterapeuta come una sorta di “judo” psicologico, nel quale ogni mossa del terapeuta rappresenta il suo tentativo di mostrare al “paziente” l’altra faccia di sé stesso. Da questo punto di vista, è dunque inavvertibile la distinzione fra “strategia codificata” e conduzione del setting.

Come ho detto precedentemente, nel mio setting possono emergere così differenti stili comunicativi, differenti modi dello “psicoterapeuta” di esprimere il proprio ruolo. A mio avviso, il personaggio del professionista che ascolta in silenzio, dice poche assennate parole, e usa il suo silenzio come uno specchio lievemente inquietante dell’altro, non ha più l’efficacia comunicazionale di un tempo: per dirla con una battuta, da quando è diventato un ottimo personaggio da film e barzellette, non è più un ottimo personaggio per il setting. A rovescio, la sua efficacia terapeutica non consisteva tanto nell’oggettività del suo dire, ma nella sua capacità di rappresentare, attraverso questo, il mondo del paziente, rimandandogliene la discrepanza fra ciò che questi esperiva di sé e ciò che da un altro punto di vista poteva esser percepito.

Nel mio setting compaiono dunque anche altri “personaggi”, a mio avviso in grado di creare spazi di riflessione più adeguati di quanto non possa farlo appunto il personaggio dello psicanalista silenzioso e saggio: quello che intendo dire, è che per creare un confronto bisogna poter entrare nella messa in scena dell’altro secondo le regole di essa. Accanto al professionista serio e posato (sempre utile all’inizio di una terapia) potrà dunque prender la scena una persona meno formale, i cui modi rimandano meglio il “linguaggio” del paziente, o la possibilità di fargli esperire una percezione di sé differente da quella che esperisce come “paziente”. E’ qui che la psicoterapia diventa arte della “comunicazione” e dunque – o forse soprattutto – arte della “rappresentazione” del nostro creare il mondo entro la matrice delle nostre relazioni.

Personalmente, uso con molta facilità una comunicazione molto esplicitata e fuori dalle righe, nella quale entrano modi e verbalizzazioni anche molto distanti da quelle di un classico professionista: quello che cerco è far sì che i modi del linguaggio “quotidiano” possano veicolare intuizioni e prospettive “psicoterapeutiche”, destinate a far notare le incoerenze con cui il paziente, descrivendo il mondo, descrive un sé stesso differente da quello che emerge quale abitante del suo mondo

Da questo punto di vista, posso dunque utilizzare il “linguaggio” del distaccato e serio professionista così come quello della persona che usa modi e termini poco consoni a tale status, sfumando cioè il discorso da “vero” psicoterapeuta sino a quello del “coatto” che in modi spicci e non sempre educati va al sodo delle razionalizzazioni e delle difese del paziente.

Cornice e supporto indispensabili ad uno scenario del genere sono in primis l’ironia e il disincanto come continua e costante connotazione metacomunicativa di tale agire, agire che deve emergere sempre quale “rappresentazione” – come tale interna a una dimensione transcontestuale – di un ruolo “professionale” volto, quanto più disinteressatamente possibile, alla salute dell’altro.

L’altra logica attraverso cui orientare un simile agire, è la consapevolezza che tale rappresentazione deve sempre esser del tutto compatibile con il mondo psichico della persona che si ha di fronte.

Stabilite queste premesse, le uniche regole da seguire sono quelle che limitano le contaminazioni tra i diversi tipi di transazione: col “paziente” non vi debbono mai essere contatti fisici intimi, nonché transazioni economiche o di lavoro a favore dello psicoterapeuta.

Ciò non implica affatto, però, che non si possa accennare metaforicamente a temi del genere.

Non è dunque rarissimo che io interpreti il ruolo dello psicanalista che ci “prova” – in modo ironicamente maldestro e con sottolineati tentativi manipolatori – con la bella paziente che ha di fronte.

Al proposito, non solo non mi è mai accaduto di essere preso sul serio, ma se anche un giorno mi accadesse di voler veramente “sedurre” una paziente, non sarei mai credibile: la scena si trasformerebbe automaticamente nella caricatura di sé stessa e il minimo che accadrebbe è che l’altra si metterebbe a ridere credendo ad un mio nuovo stratagemma terapeutico. Parallelamente, non ho mai avuto occasione di incontrare – da quando utilizzo il setting in tal modo – un transfert “erotico” o “erotizzato”.

D’altra parte, devo ricordare che la prima volta in cui mi son ritrovato ad interpretare con estrema ironia il ruolo dello “psicoterapeuta” seduttivo, è stato allorché una bellissima ragazza, appena arrivata al mio studio, mi fece capire che il suo problema era quello di esser stata sempre segnata dall’invidia altrui proprio a causa di tal bellezza.

Quando cominciai a scherzare con lei facendo finta di esserne anche io abbagliato, e dunque pronto a sedurla in modi subdoli e preoccupanti, lei scartò immediatamente l’idea che facessi sul serio, e capì immediatamente – come mi disse poi – che il problema era nel suo vissuto di quell’esperienza.

Il punto, è che la dimensione dell’ironia, è di fatto un potentissimo segnale di consapevolezza dei vari livelli di una relazione e tende a rendere continuamente esplicito il “come-se” di cui parlava Rapaport: le problematiche del “transfert” (che io spiego come un problema di definizione della relazione) rimangono a livello di ironica rappresentazione, dunque impossibilitate ad emergere come “acting out”.

D’altra parte, vorrei ricordare qui cosa diceva Koestler circa il rapporto fra atto creativo e umorismo (Koestler, 1975). Secondo questo autore, ogni atto creativo emerge per un processo che egli definisce di “bisociazione”, che consta del riunire in uno stesso contesto di riferimento esperienze o prassi abitualmente incompatibili fra loro.

Ogni scoperta scientifica è dunque un nuovo modo di creare relazioni fra contesti abitualmente incompatibili (ad es., la muffa “diventa” un antibiotico se invece di buttare il brodo lo osserviamo al microscopio).

Secondo Koestler. l’ironia e la comicità farebbero parte comunque dei contesti bisociativi, proprio perché fondati sull’unione di esperienze abitualmente incompatibili (per rimanere in un esempio classicamente cinematografico: la torta, che invece di essere mangiata – esperienza usuale – viene data in faccia a qualcuno).

Da questo punto di vista, la mia impressione è che l’ironia permetta in psicoterapia un accesso creativamente più incisivo alla messa in scena e dunque alle possibilità di trasformazione, proprio perché consente di esperire più livelli di esperienza in un medesimo agire.

Ciò si concretizza, di fatto, nella possibilità di affrontare comunque – trasformandole – le tematiche che nelle psicoterapie di impostazione analitica sono definite come profonde e “inconsce”, e questo senza far emergere “proiezioni” eccessivamente disfunzionali al processo psicoterapeutico, “proiezioni” comunque contestualizzabili proprio dall’uso della metafora e dell’ironia. D’altra parte, lo stesso Watzlawick, prima di abbandonare definitivamente la metafora dell’inconscio, scriveva testualmente:

Ed è perciò sorprendente il fatto che Freud, che è l’autore di uno degli studi più classici su questo tema, – I motti di spirito ed il loro rapporto con l’inconscio, lo veda solo come via a senso unico, che porta cioè dall’inconscio al conscio; e che però non ne tragga la conseguenza più direttamente a portata di mano, vale a dire quella di impiegare inversamente il linguaggio del motto di spirito ai fini della comunicazione con l’inconscio. A quanto pare egli è rimasto troppo legato alla sua massima secondo cui dove era l’ES, deve esserci l’IO. A prescindere da questo, il suo libro sui motti di spirito … è non solo divertente, ma anche, nella sua applicabilità al linguaggio della terapia, molto istruttivo” (Watzlawick, 1980, pag. 60)

Dal mio punto di vista, riemerge qui – come spiegazione di questo “recitare” nel setting – la tendenza a utilizzare il linguaggio degli eventi “quotidiani” all’interno del setting psicoterapeutico.

In tal modo non solo – e non tanto – è possibile sfuggire alle razionalizzazioni difensive tipiche delle verbalizzazioni teoriche, ma si giunge ad una prassi psicoterapeutica quanto più possibile vicina all’imperativo estetico di von Foerster:

Se vuoi vedere, impara ad agire” (von Foerster, 1986, pag. 233)

laddove questo agire porta con sé la consapevolezza di livelli multipli del suo essere esperito come tale.

Nella dimensione transcontestuale della psicoterapia questo “agire” che è in realtà un mettere in scena, viene dunque esperito a livello di comportamento metaforico, e permette così di utilizzare in senso etico la dimensione transcontestuale della psicoterapia per promuovere un cambiamento nell’esperienza di sé stessi.

In questo senso, la migliore psicoterapia è quella che mette in scena il mondo del paziente: l’arte dello psicoterapeuta, per quanto mi riguarda, è dunque quella di creare il personaggio e le situazioni più adatte a modificare la scrittura che il paziente fa del copione con cui scrive ed esperisce sé stesso.

Accennerò dunque ora, come esempio di tale prospettiva di una psicoterapia che è messa in scena, ad un modello di intervento che utilizzo in un particolare contesto terapeutico, quello della Mediazione del Conflitto.

Come noto, compito dello psicoterapeuta – in tale caso – è quello di favorire una pacifica dissoluzione del legame coniugale di una coppia in conflitto e decisa a separarsi.

Per far ciò, il conflitto va a mio avviso gestito attraverso la sua messa in scena.

Per elaborare una strategia che ottemperi a questo obbiettivo, io e il collega col quale conduco le sedute di Mediazione del Conflitto, abbiamo elaborato una pratica non ortodossa della stessa, lavorando sull’assunto che i consueti modi con cui oggi si pratica la Mediazione non sembrano raccogliere quei successi di cui si avrebbe bisogno, perché basati su una logica in cui gli appelli alla “razionalità” dei contendenti, all’interesse dei figli, alla necessità di vivere in pace ed armonia, si scontrano con l’incoercibilità dei rispettivi fantasmi persecutori e conflittivi. In altre parole, se i separandi coltivassero i sentimenti che si vorrebbe inculcar loro, difficilmente si sarebbero separati e comunque non lo farebbero in modo tanto aspro e violento.

Nel nostro modello di intervento, partiamo invece dal presupposto che in ogni conflitto coniugale i fantasmi del proprio vissuto sono indistinguibili dalle esperienze “reali”: solo con una operazione a posteriori è possibile separare le “illusioni” dalle “percezioni”.

Se invece spieghiamo la realtà con l’oggettività messa fra parentesi (Maturana, 1993), dobbiamo concludere che la soluzione non è nel decidere fra ciò che è vero e ciò che è falso, fra chi ha “torto” e chi ha “ragione”, o in una ipotetica via di mezzo fra questi, ma nell’assumere una prospettiva in cui il conflitto sia spiegato come un operare dell’osservatore (i due coniugi che esperiscono sé stessi) in differenti ma non incompatibili domini di esistenza.

Di fondo, detto in altri termini, la gente preferisce ricorrere al Tribunale perché così può litigare. D’altra parte, in una logica circolare, è l’esistenza del contenzioso giuridico applicata alle problematiche familiari che induce una coppia a litigare sempre di più in Tribunale.

Il nostro setting psicoterapeutico porta invece il “Tribunale” nello studio dello psicoterapeuta.

Operiamo in due psicoterapeuti, e spieghiamo ai coniugi che entrambi siamo un “po’ avvocati” e un “po’ giudici”.

Ci presentiamo cioè come se ognuno di noi fosse il consulente di uno dei due coniugi e al tempo stesso la metà di una specie di giuria formata dalla coppia di psicoterapeuti come tale.

In tal modo, mettiamo in scena (attraverso un virtuale e dunque consapevolmente paradossale sdoppiamento dei ruoli) le aspettative e i timori che i coniugi hanno sul terapeuta che si occupa del loro conflitto coniugale.

Successivamente, invitiamo i due coniugi – spiegando che è per poter discutere il loro “caso” – a portarci quante più “prove” e “memorie” possibili l’uno delle malefatte dell’altro. Al termine della prima seduta, dunque, i due sono invitati a farci avere una “memoria” scritta densa di fatti e note personali, di una lunghezza non inferiore alle quaranta pagine.

Nelle sedute che seguono, insistiamo ancora di più, e ai due viene anche chiesto di portare quante più possibili “prove” sulle malefatte dell’altro. Si dice di tentare di fare esattamente quello che farebbe una coppia in un grave conflitto legale, e li si invita così a portare registrazioni di eventuali telefonate, foto compromettenti, scritti, lettere, e quanto ognuno dei due ritiene utile a dimostrare la “colpa” dell’altro.

Dopo pochi giorni di possibile intenso lavoro in merito, nella coppia sopraggiunge automaticamente un clima di perplessità e confusione sulla funzionalità e la bontà di una tale guerra. Se anche vengono portate delle prove, sembra che i due lo facciano in genere più per liberarsi di un compito che non per volontà conflittuale.

In breve, i due coniugi che si ritenevano arruolati a tempo pieno nella lotta dell’uno contro l’altro, tendono automaticamente a prendere le distanze dal loro conflitto: il peso e l’impegno di portarlo avanti come compito tende a opacarne grandemente il fascino.

Contemporaneamente, ogni seduta di tale procedura è centrato sulla s/drammatizzazione ironica dei fantasmi persecutori dei due partner: i due terapeuti si danno da fare a elencare le colpe che l’altro partner avrebbe nei confronti del proprio “assistito”, chiedono appunto sempre più prove, si producono in esasperanti arringhe contro il partner di questi, non raramente si mettono a discutere con veemenza tra loro, litigando come due avvocati in udienza.

Ogni due o tre sedute (a seconda della conflittualità della coppia) i due psicoterapeuti si riuniscono in “Camera di Consiglio”, ed emettono un “provvedimento” – esattamente come farebbe un Giudice che si occupa di un contenzioso giuridico legato all’affido minori.

Ovviamente, ogni sentenza contiene una prescrizione paradossale, in genere fondata sull’assunto che per litigare occorre essere d’accordo a litigare. Uno dei compiti previsti è la c.d. “Gara di sproloquio”: ciascuno dei due partner (a casa o, nei primi tempi, in presenza dei terapeuti) deve riempire di accuse l’altro, senza fare riferimento a fatti concreti, ma solo a dati “oggettivi” del carattere. Vince la gara il coniuge che riesce ad ascoltare il più a lungo possibile le accuse dell’altro. Chi parla per un tempo inferiore ad un minimo prestabilito, perde. L’aspetto curioso di tale “gara” è che dopo pochi minuti di accuse, di fronte al silenzio dell’altro (e per questo è preferibile far svolgere le prime di queste “gare” nello studio dei terapeuti, il che favorisce l’assenza di reazioni nel partner che non parla), il coniuge che accusa si rende conto che sa solo ripetere quattro o cinque concetti al massimo, e con nemmeno molta convinzione. Diviene palpabilissimo, in sostanza, come il conflitto si nutra del consenso reciproco a confliggere.

Le altre prescrizioni paradossali si fondano tutte su tale logica, e vanno dal litigare ad orari fissi (in qualche caso, anche svegliandosi in piena notte e terminando alle prime luci dell’alba), all’inventare pretesti di scontro per vedere se l’altro cade nella provocazione, al proporre accordi definiti sempre impossibili, o a dare – come “punizione” – una parte di una modalità di accordo sulla frequentazione con i figli che si vorrebbe proporre. Ad esempio, se si “costringe” un padre a portare i figli al Luna Park un sabato e un mercoledi pomeriggio, con l’obbligo di portarli poi a scuola, si comincia a delineare una possibile modalità di frequentazione (week end alternati con pernottamento infrasettimanale): il punto è presentare tale proposta come una punizione, individuando quale è più credibile agli occhi della ex moglie (o quale è la spiegazione che costei non può non accettare per poter continuare a difendere il proprio punto di vista sull’altro).

L’ideale è riuscire a far si che la coppia in conflitto si separi stancandosi del conflitto e formalizzando accordi implicitamente già presi.

L’obiettivo di tutta tale procedura – definita appunto “Il Processo” – è dunque quello di ricalcare il mondo persecutorio del conflitto coniugale, portarlo sul luogo dell’esplicita messa in scena terapeutica, trasformarlo proprio grazie all’assunto che non esiste l’obiettività di cui esso si nutre. Ciò che si tende a creare, è dunque la consapevolezza che il conflitto è una sorta di giuoco di ruolo che emerge come tale perché i contendenti non sanno di operare in differenti domini esplicativi.

Come detto precedentemente, tale procedura può essere utilizzata – ovviamente con qualche variante – anche nelle terapie familiari non volte alla separazione dei coniugi, ma la logica su cui si intesse è riproducibile in ogni setting individuale.

La chiave operativa sottesa, dunque, è che il cambiamento in psicoterapia avviene perché la dimensione transcontestuale su cui si fonda tale processo permette di esplicare e vivere se stessi e la propria “realtà” in differenti domini esplicativi e di esistenza.

Ancora una volta, dunque, ritengo necessario sottolineare che la “psicoterapia” in sé – come prassi e come teoria – non esiste (Giordano, 1997): ciò che la connota come tale è il fine etico con il quale utilizziamo quei domini di riflessione linguistica che sono le teorie psicoterapiche.

Queste, hanno lo scopo di orientarci nel dominio della nostra interazione col “paziente”, permettendoci di mantenere distinti i differenti livelli della relazione attraverso la quale operiamo.

La “psicoterapia”, è dunque una dimensione transcontestuale, che diviene terapeutica per l’atto etico con cui operiamo attraverso di essa.

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(*) RINGRAZIAMENTI

Ringrazio dunque i miei collaboratori: Carlo Camilli (metodologo), Silvana De Gregorio (psicologa), Paolo “Pollo” Ferazzoli (manager consultant), Sonja Gemma (laur. In Psicologia), Maria “Anestesia” Grimaldi (organizzazione), Elvira Gualtieri (interprete e traduttrice), Luca Mastromattei, ingegnere, e lo studio Si.G.Ma, Antonella Medici (organizzazione) Dulia A. Ordoñez G. (traduttrice, ricercatrice e… moglie); Studio Avv. Carlo Picarone (consulenze legali); Lucio Salvatore Satto (sociologo), Anna Maria Sidonio (organizzazione) per la collaborazione e l’aiuto fornito con intelligenza, coraggio e molta pazienza.

Un saluto finale ad Adelmo T. e a Giulia M.

Con infinita gratitudine a E. R. e H. Maturana per quel che mi hanno dato.


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