LE REGOLE DELLE SPIEGAZIONI NON SONO LE SPIEGAZIONI DELLE REGOLE
La “realtà” come terapia
Nel video “Siamo tutti pissicoterapeuti V” (girato nel maggio 1990) lo “psicoterapeuta” dello studio inventa l’ennesima “psicoterapia”, eleggendo a suoi “co-terapeuti” due piccoli truffatorelli napoletani, presentatiglisi all’inizio come due potentissimi camorristi che volevano avviare con lui un lucroso traffico di pazienti (voluta citazione da “Il Medico della Mutua”) (D’Agata, 1966).
Tale terapia si chiama “Terapia di Realtà”, e consiste nel far guarire il “paziente” ponendolo di fronte ad eventi più o meno normali di vita quotidiana, apparentemente spontanei, improvvisi e imprevedibili, ma in realtà inventati dallo psicoterapeuta per scompaginare la costruzione che il sofferente fa della realtà ed agiti o da suoi “co-terapeuti” o, anche, da parenti e amici del paziente.
L’invenzione di tale psicoterapia segue, nel film, le vicende relative ai vari personaggi della storia. Tali personaggi sono, oltre ai due “truffatori”, una stagionata signora separata, in cerca di nuovo partner, e infervorata cultrice di terapie alternative e filosofie esoteriche, un idraulico smanioso di diventare “psicoanalista”, e altri personaggi (tra cui spiccava una disperata e teutonica moglie di un ex playboy della riviera romagnola, da lei conosciuto nel fiore della propria virilità e rivelatosi con gli anni un accanito “omosessuale”).
Il video inizia appunto col tentativo di due fratelli napoletani di spacciarsi per veri camorristi. Costoro, animati dal fine di rivendere a qualche giovane psicoterapeuta un inesistente stock di malati mentali, tentano il colpo con quello del film: spiegandogli, nel corso di una loro “amichevole visita”, come potrà garantirsi un costante afflusso di malati in cambio di una adeguata tangente (variabile a seconda della gravità della malattia e alla presumibile lunghezza della relativa “analisi”) da versare alla loro “organizzazione”. Che nel video ha un nome abbastanza simile a una delle molte organizzazioni “ortodosse” che si occupano di psicoterapia.
In verità, ciò che i due ragazzi volevano intascare era semplicemente le spese e l’anticipo sull’arrivo del primo – quanto inesistente – “stock” di pazienti.
Lo psicoterapeuta del video, più esperto in truffe dei due, si accorge ben presto del bluff, rendendosi conto che costoro – potenti malavitosi solo a parole – altro non sono appunto che truffatorelli di mezza tacca.
E quando chiede loro perché hanno tentato il colpo proprio con lui, i due, in un napoletano che porta con sé molti significati, gli rispondono a tono:
– Perché sembri un vero psicoterapeuta, uno di quelli appena usciti da un Corso di Formazione Quadriennale -.
Commento non si sa se più offensivo per i “veri psicoterapeuti” o per quelli “finti” come il protagonista del film. Ma proprio questa scena evidenzia quanto il dilemma della “psicoterapia” sia non nella falsificabilità o infalsificabilità dei dati, quanto nella definizione del concetto di “falso”.
La parte dei due truffatori era impersonata – nel film – da due intelligenti ragazzi (che non erano parenti fra loro) i quali avevano fatto del loro cronico “stallo adolescenziale” un remunerativo copione di vita: da anni, a causa delle loro “apatie” e/o “depressioni” non riuscivano a dare esami all’Università, erano costretti a sospendere qualunque lavoretto intentassero, e vivevano a perenne ricasco della famiglia, che contestavano tanto violentemente quanto strumentalmente.
Arrivati quasi alla soglia dei trenta anni, vivevano – grazie appunto alla loro patologia – una stagione di spensierata “libertà”. Erano insomma uno di quei “Disturbi di Personalità” che impongono allo psicoterapeuta di ristrutturare in maniera veridicamente popolare il dilemma fondamentale della psichiatria e – in generale – dell’Essere Umano, chiedendosi cioè ripetutamente: “Ma questo qui, ci fa o ci è ?”
Uno dei due “malati” riceveva da circa cinque anni un paio di milioni al mese per vivere spesato di tutto punto nella città sede della propria Università: i continui rimproveri della madre erano tanto un ottima scusa per combinare ancora meno quanto una efficacissima strategia della signora per pregiudicare ogni possibile autonomia del figlio.
L’altro ragazzo – di prospettive più “alternative” – aveva dichiarato la propria indipendenza dalla famiglia, ma questo non gli impediva di ricevere commiserevoli regali da una coppia di zii, felici in tal modo di connotare i fallimenti dei genitori del ragazzo, e il proprio “illuminato” e importante ruolo nell’aiutare la famiglia della cognata in difficoltà. Grazie a queste elargizioni, il ragazzo riusciva molto bene nella sua attività preferita: pianificare più o meno brevi vacanze e divertimenti in attesa che la voglia di concludere qualcosa arrivasse dalla “psicoterapia” cui era stato prontamente inviato.
Uno dei due, nella vita, era “iscritto” a Medicina, ovviamente con la prospettiva di diventare “psichiatra” e “psicoterapeuta”. L’arretratezza negli esami era pari alla capacità con cui sfornava pareri – anche intelligenti – sulla “psicoterapia”.
L’altro si apprestava ad entrare allegramente al quinto anno di iscrizione ad Economia e Commercio dopo aver dato sette soli esami.
Alla luce di questa “anamnesi”, fu giocoforza dar ad entrambi la parte appunto dei finti camorristi in realtà “veri” truffatorelli: se non altro per connotare come il loro vivere sulle proprie disgrazie potesse esser letto appunto come un bluff nel bluff, un voler campare su una malattia che nemmeno esisteva (come lo stock di malati che nel video cercavano di vendere) e su una patologia nemmeno sofferta – un gioco quasi meschino ma sostenuto dall’ “oggettività” le cui prove e premesse erano fornite loro da un contesto familiare e amicale in qualche modo ben lieto di supportarli in tal senso. Gli amici, le fidanzate e le soluzioni che i due sceglievano riuscivano sempre a non mettere mai in crisi questo stallo, anche perché li sceglievano sempre fra quelli disposti a prodigarsi in continui trend di aiuti, consigli, saggezze, che lasciavano la condotta dei malatti del tutto inalterata.
Nella storia narrata, accadeva che lo psicoterapeuta, appena scoperto l’inganno dei due finti camorristi, pensava bene di sfruttarne le qualità interpretative per organizzare un’ennesima psicoterapia, la cosiddetta “Terapia Di Realtà”, che, nel frattempo stava cercando di vendere al figlio della infervorata amante delle terapie esoteriche, la quale – allorché inizia il video – sta dilapidando gran parte del suo tempo e denaro praticando una setta esoterica di dubbia onestà.
Nella “realtà” al di fuori del set/setting della VMT tale signora era “vittima” di una annosa “depressione”, cui cercava riparo frequentando effettivamente una gran quantità di corsi, centri, pratiche più o meno mirabolanti ed esoterici. Quando iniziò a girare il video, era realmente dedita, con grande impegno, ad una pratica esoterica le cui modalità facevano sospettare una non totale buonafede da parte dei responsabili della struttura (non a caso, i sospetti si rivelarono abbastanza fondati gli anni seguenti). Ovviamente, parte di questa dottrina venne riversata negli insegnamenti con cui lo “psicoterapeuta” del video tenta di ingannare i potenziali adepti.
Ovviamente, tali frequentazioni avevano nella vita della signora un significato, più o meno “inconscio”, ben preciso: tentare di gestire il mondo e chi lo abita secondo i propri desideri. Non volendo e non potendosene accollare la responsabilità in modo esplicito e in prima persona, legittimava ogni propria decisione e tutta la sua attitudine al controllo delle relazioni attraverso l’utilizzo – ovviamente a proprio uso e consumo- di questo pittoresco corteo di dottrine più o meno esoteriche e più o meno profonde, che la facevano sentire in costante armonia col divino e, dunque, sempre legittimata di fronte a sè stessa a esigere, con ostentato amore “universale” universale, che il proprio volere fosse l’unico possibile.
Nella vita quotidiana, e in specie con i due figli maschi (uno dei quali le era scappato di casa cercando di far perdere le proprie tracce) era animata da una ferrea e terribile volontà di gestire tutto e tutti secondo i dettami delle teorie che a come meglio le pareva si riciclava.
L’ingresso nel video del personaggio interpretato da questa signora, avviene allorché nella scena è presente un altro dei personaggi, quello dell’idraulico.
Tale parte era stata affidata a un ragazzo straordinariamente colto e intelligente il quale, affetto da una robusta Sindrome di Panico e da una famiglia più o meno disfunzionale, oltre ad avere una vita abbastanza compromessa dal suo DAP (come lo chiamava dopo aver letto non pochi testi di psichiatria), non si era mai riuscito a diplomare e a laureare grazie all’idea fissa che, a questo mondo, solo “i laureati” sono rispettati “davvero”. Data la profonda e mai consapevolizzata disistima, era sempre più andato alla deriva, finendo per abbandonare le scuole al secondo anno delle Superiori, accontentandosi di lavori che riteneva sempre più dequalificanti, e riducendo quasi a zero la propria vita sociale e affettiva. Quello di idraulico era stato uno dei tanti mestieri intentati (il penultimo), e lo aveva smesso per mettersi a fare il buttafuori in una discoteca cittadina.
Questo non gli impediva di coltivare letture interessantissime, di avere interessi fuor dal comune, di dar spazio alla sua curiosità e intelligenza con grande creatività ma – anche – con la costante attitudine alla impossibilità di concretizzare un livello di vita sociale e affettiva per lui gratificante.
Nella trama del video, l’arrivo di tale idraulico avviene per un improvviso guasto dei sanitari, per riparare i quali il giovane (fra l’altro prodigo, nella vita reale, di consigli per evitare le trappole di eventuali colleghi poco onesti) presenta al direttore dell’Istituto un preventivo esagerato, convinto di avere di fronte il classico ricco professionista da depredare con voluttà. Lo psicoterapeuta, invece, riluttante a pagare e che ben ha capito chi ha di fronte, gli offre la possibilità di diventare “psicanalista” con tanto di certificazione dell’Istituto, in cambio del lavoro gratis.
Come già detto, erano proprio quegli gli anni in cui si avviò la famosa “sanatoria” per la qualifica di “psicoterapeuta”: in nome della legge appena entrata in vigore, sembrava (come poi avvenne) che ad usufruire di tale “titolo” potessero arrivare non solo – e anche giustamente, il più delle volte – laureati in varie discipline, ma anche gente che la laurea non ce l’aveva affatto.
Personalmente, in svariate occasioni ero stato direttamente testimone di situazioni quantomeno al limite dell’etica e della deontologia – se non della illegalitˆ vera e propria: vi era ad esempio una certa scuola in psicoterapia che – vantando ampi collegamenti e finanziamenti internazionali del tutto inesistenti – aveva garantito il “Diploma” ad una licenziata delle Magistrali che lavorava come dattilografa in una azienda, ad un segretario scolastico col titolo della Terza Media, e a casi simili: nei primi anni Ottanta non era affatto difficile imbattersi proprio in “Corsi di Formazione in Psicoterapia” a cui erano iscritti realmente – e realmente in attesa del titolo di “psicoterapeuta” – oltre a colleghi validamente laureati in varie discipline, anche persone il cui titolo andava dal Diploma di Scuola Media Superiore a quello di terza media.
Devo qui precisare – per quel che mi riguarda – che anche questo accenno alle problematiche sul riconoscimento del titolo di psicoterapeuta non fa parte di un discorso politico, quanto dell’emergere a livello giuridico della impossibilitˆ di porre criteri “oggettivi” per distinguere tra vere e false psicoterapie e veri e falsi “psicoterapeuti. E’ noto infatti, ad esempio, che fra i primi “jungiani” italiani vi sono stati validissimi analisti non laureati (vi era una rinomata pittrice, ad esempio, così come una grande giornalista), e come in molto paesi esteri la legislazione preveda di fatto possibilità simili: il problema, dunque, va al di là del “semplice” possesso di un titolo di studio “accademico” e l’assenza di questo non comporta affatto – a mio parere – l’incapacità ad operare come psicoterapeuti.
Nel video di cui ci stiamo occupando, dunque, l’assenza del titolo di studio era nettamente contrapposta all’assenza di Etica: quale delle due sia più perniciosa non sembra potersi discutere. Operando eticamente, si può infatti riconoscere il limite al proprio operare, mentre la patogenicità di un atteggiamento vessatorio o truffaldino non viene certo compensata dal numero di lauree possedute.
In tale video, dunque, il giovane idraulico si vede promesso – in cambio del lavoro svolto gratuitamente – la qualifica di “analista”. Ovviamente, il Corso di Formazione sarà gratis, ma l'”analisi didattica” non potrà che esser pagata, dato – spiega appunto lo “psicoterapeuta” al futuro allievo – che essa non può funzionare in assenza di obolo.
Tutto ciò significa che, proprio in nome delle sue aspirazioni da psicoterapeuta e della sacralità dell’analisi, il giovane artigiano comincia a lavorare al bagno dell’Istituto ben contento di pagarsi l’analisi didattica con cui, grazie al Corso di Formazione frequentato gratuitamente, potrà finalmente diventare “psicanalista” come quelli “veri” (un tema particolarmente caro all’interprete di tale personaggio, per il quale quel che faceva lui non aveva mai la credibilità di quel che facevano gli altri).
E’ allorché inizia i suoi primi lavori, che il giovane idraulico incontra (siamo sempre nella narrazione) l’infervorata cultrice di discipline esoteriche. Successivamente, la sua storia si snoderà invece nell’incontro con gli altri due personaggi, i due truffatori precedentemente travestitisi da camorristi.
Nel video, dunque, la signora arriva allo studio dello “psicoterapeuta” spinta dal figlio – proprio quello, invece, che nella realtà era scappato da casa e per il quale la donna (che ignorava dove si trovasse) soffriva abbastanza.
Nella creazione della storia, pertanto, riscrivemmo esattamente al contrario la vicenda che la “realtˆ” sembrava narrare: il figlio scappato diviene quello che vuole che la madre si curi (venne così data una precisa interpretazione della fuga del ragazzo) e telefona allo studio del professionista organizzando l’arrivo della donna in “terapia”. Per farlo, convince la genitrice che in quel “Centro” avrebbe incontrato la definitiva Via di Saggezza Interiore.
E’ evidente invece che la donna sta cadendo dalla padella dell’Esoterismo nella brace della Psicoterapia.
Spinta dunque da tale esca, la signora arriva allo studio proprio nel momento in cui l’idraulico, seduto sulla tazza del gabinetto da riparare, sta approfittando di una pausa di lavoro per approfondire i primi rudimenti della psicoterapia e diventare cos“, grazie ad un gabinetto da sturare, “psicoterapeuta” .
Ed è qui che si scatena l’equivoco per così dire “percettivo-ideologico”.
L’infervorata signora, infatti, già preda delle proprie prospettive, e vedendo il giovane che declama il volume seduto sul gabinetto ma con zelo che le appare non lo sforzo di un disabituato alla lettura ma di una attitudine carismatica, scambia quanto sta accadendo per quel che non è: si convince pertanto che a leggere il volantino non è uno stagnaro in pausa “didattica”, ma un saggio maestro zen, che declamando in tal modo, e in tal contesto, i frutti della propria ricerca, sta esprimendo l’idea – contenuta nel primo scritto scopiazzato a caso dal Direttore della “Scuola” – secondo la quale qualunque Via di Ricerca Interiore non è una Via di Ricerca Interiore se percorsa come Via di Ricerca Interiore.
La signora, convinta così di aver a che fare con un profondo e innovativo momento di esperienza zen, dopo aver ascoltato in sacrale silenzio la voce dell’idraulico, entra e si lascia ovviamente andare alle proprie magnificazioni. L’idraulico cerca di farle presente di essere solo uno stagnaro che sta leggendo un libro, ma è proprio questo che la convince di avere di fronte un saggio e post-industriale cercatore di verità esoteriche.
La signora, infatti, si infervora sempre più e utilizzando metafore sempre più grottesche (ricordo che i dialoghi sono inventati all’impronta da chi li recita):
– Il gabinetto otturato é la mente ripiena dalla Maya ! E tu, declamando la tua verità di fronte alla tazza, ricordi che la vera illusione é la ricerca di una verità che sarebbe soltanto, anch’essa, illusione ! Che idea questa performance in questo luogo così lontano dai soliti stereotipi di una saggezza che è mera ripetizione preconfezionata di sé stessa ! Tu sei il saggio Maestro del Satori Post-Industriale. –
E così più l’altro insiste a spiegarle la sua verità, con modi spicci e già poco civili, più lei si convince di avere a che fare con un sempre più saggio e rude faro di risveglio interiore.
Il tracollo avviene allorché nel bagno entra anche lo “psicoterapeuta”, che si presenta come tale – cioè come un “vero” psicoterapeuta – proprio temendo che l’altro gli rubi una paziente. E, sempre temendo la perdita della nuova arrivata, insiste a definire l’altro un semplice idraulico che sta leggendo un manualetto. Sottolinea così alla signora sia il proprio voler rimanere nell’ambito della scienza accademica, sia quanto lei sia stata ingannata dalle proprie aspettative.
E’ quanto basta a far scappare inferocita, la signora che non tollera né l’abbaglio preso, né il tentativo della scienza ufficiale di prendersi cura di lei (in quegli anni le psicoterapie cosiddette “alternative” erano abbastanza più rappresentate, nel nostro contesto professionale – con floride tirature di giornali dedicate ad esse).
La partita sembra veramente persa e il figlio della signora già reclama l’onorario anticipato allo “psicoterapeuta”, quando costui ha un’idea.
Inventa appunto la “Terapia di Realtà” e la propone – sempre per telefono – al figlio della signora. Qui avvenne un’altra riscrittura della “storia”: lo “psicoterapeuta” consiglia infatti al ragazzo – come “terapia” – di fuggire di casa proprio a cagione degli eventi che si determineranno con la Terapia di Realtà.
Per iniziare la quale ricorre appunto all’entrata in scena dei due personaggi che ho descritto precedentemente, i due truffatori mascherati da camorristi.
Costoro, vengono infatti riciclati – date le loro capacità – da truffatori a “co-terapeuti” della signora: secondo le istruzioni dello “psicoterapeuta” devono infatti presentarsi a casa della signora e fingere di aver bisogno del suo intervento. Fra i tanti risultati dei suoi vagabondaggi fra centri e associazioni alternative, il personaggio del video aveva infatti cumulato non pochi diploma di “pranoterapeuta”, “guaritrice attraverso l’aura” e via dicendo (nella “realtà”, una delle mire della donna che interpretava la parte era proprio quella di diventare una specie di accreditata taumaturga alternativa). Dal momento che la fissazione della donna, nel video, è quella di diventare abilissima a controllare tutto e tutti attraverso le proprie arti esoteriche, compito dei due co-terapeuti sarà di far fallire tale prospettiva presentandosi come due incurabili malati, bisognosi di aiuto ma, ahimè !, resistenti ad ogni terapia.
E qui, tra il set della VMT e il setting della psicoterapia, viene operato una sorta di “chiasma” narrativo.
Nel video, infatti, lo “psicoterapeuta” fa sì che i due truffatorelli si presentino alla signora fingendo di essere esattamente quelli che i loro interpreti sono nella vita reale.
Devono dunque bussare a casa della signora presentandosi appunto come due ragazzi affetti da un penoso Disturbo di Personalità – ribelle a ogni psicoterapia e a ogni altro intervento medico-pedagogico, che impedisce loro di studiare, dare esami, lavorare, avviarsi verso una vita autonoma. In nome di tale “patologia” (che è appunto la stessa che i due interpreti lamentano nella loro “realtà”) devono quindi chiedere il taumaturgico intervento della signora, e operare in modo consono ai propri schemi – sfruttando cioè a proprio vantaggio le volontà taumaturgiche della signora e la loro “inventata” patologia caratteriale.
Loro compito, nella trama del film, era quello di piazzarsi a casa della signora e fare quello che in un modo o nell’altro nella vita facevano per davvero: sfruttare il più possibile la convivenza in senso economico, darsi alla bella vita a spese e in casa d’altri (nella storia, quella della signora), gozzovigliare allegramente con i suoi soldi, infischiarsene di tutti gli insegnamenti e tutte le pratiche che lei, per farli “guarire”, somministrava loro, e ogni volta dichiarare candidamente che era più forte di loro comportarsi così: forse per via di un qualche residuo karmico mal elaborato o a qualche problema insorto nella prima infanzia a causa di un rapporto con un genitore infelice.
Il risvolto narrativo “drammatico” si ha allorché la signora cade vittima del fascino dei due lestofanti: scopre chi sono “davvero” e se ne innamora perdutamente, proprio per la loro faccia tosta, la loro spavalderia, la loro capacità di godersi la vita a spese altrui. La signora abbandona dunque ogni velleità esoterica e terapeutica, e cinge d’assedio i due, trasformando in una specie di fastidiosissimo e appiccicosissimo incubo la loro convivenza in quella casa.
La storia del video si ferma qui, per quanto riguarda la signora e i due ragazzi: quello che si cerca di fare, nel creare una storia di VMT, è di non dare mai soluzioni narrative o, soprattutto, finali ammaestratori. I personaggi devono restare a rivoltarsi dentro l’impasse creato e niente deve terminare lietamente: la fine deve sempre essere acida e fastidiosa.
Una nota su quello che ho definito come il chiasma prodottosi fra set e setting.
Gli scambi fra “interpreti” e “personaggio” operati tra il set e il setting della VMT sono il tentativo di far esperire ai partecipanti come tutte le definizioni che diamo di un problema – in specie “comportamentale” – portano con sé essenzialmente la spiegazione del dominio in cui, con le nostre premesse, lo osserviamo.
Che i due ragazzi fossero “veri” o “finti” truffatori, studenti, co-terapeuti, è un problema legato al contesto in cui lo stesso identico “comportamento” viene osservato. In questo senso, ciò che è descrivibile e esperibile come “terapia” diventa “malattia” o “inganno”, – o seduzione, o anche “assedio sessuale” – a seconda delle regole della relazione in cui viene esperito.
Anche qui, tutto quel che è detto è detto da un osservatore ad un altro osservatore – che può essere egli stesso.
La successiva evoluzione dei casi narrati in questo video fu particolarmente felice. Colui che interpretava il ruolo dell’idraulico, negli anni successivi prese effettivamente il diploma di scuola superiore, si iscrisse poi alla Facoltà di Psicologia e si è recentemente laureato. E’ sposato e ha una figlia.
Dei due studenti, uno è medico in via di specializzazione, e l’altro è un manager di una grande società di informatica: è molto lanciato nelle possibilità di carriera, e sicuramente utilizza parte di quel che ha imparato da se stesso, conoscendosi attraverso il personaggio interpretato nel film, nell’operare in un mercato come quello della carriera aziendale. La signora “esoterica” ha raggiunto un alto grado in una organizzazione internazionale e, con buona pace di tutti – psicoterapeuta compreso – ha risolto gran parte delle sue problematiche affettive, proprio perché ha smesso di utilizzare le conoscenze “esoteriche e profonde” come via di gestione dei rapporti umani. Il figlio, sposato e lontano da casa, ha ripreso a poter avere con la madre rapporti “normali”.
Sempre in tema di risultati, che a dodici anni circa dalla prima esperienza giudico felici, voglio delinearne uno particolarmente simpatico: quello relativo alle due gravidanze insorte contemporaneamente sul set del video “Siamo tutti pissicoterapeuti X” (1993) e capaci di interrompere la conduzione dei gruppi (per via dei tempi delle riprese, che – avvenendo una volta circa a settimana – avrebbero mostrato incomprensibili mutamenti nei personaggi).
Senza che ciò voglia suggerire alcun nesso “scientifico” di causalità (ma solo una dimensione felicemente narrativa), dirò che una delle due coppie tentava da circa sei anni di avere un figlio. Nel video questa coppia impersonava una coppia clandestina, il cui “lui” – sposato con una donna più anziana di lui di trenta anni – non poteva appunto avere bambini per via del legame con tale “vecchia”. Il ragazzo riscopriva ovviamente le gioie del sesso con quella che nel film era la sua segretaria-amante, e dopo aver iniziato quella strampalata terapia basata sull’uso creativo della videoregistrazione (in cui alla segretaria veniva fatto interpretare il ruolo di una seducente signora).
L’altra gravidanza fu invece la felice evoluzione di una crisi di coppia che venne ben rappresentata nei video: il clima di esplicita aggressività e disistima della donna verso il proprio partner – che nella vita come nel video impersonava il ruolo del ragazzo perennemente “confuso”, “incerto”, incapace di aderire a sé stesso e alle proprie scelte con decisione, venne reso con toni ironici e a tratti graffianti nelle scene girate. A lei venne chiesto di mettere ben in scena i suoi tratti di “intellettuale”, caricandoli di presunzione, arroganza, narcisistica superficialità; a lui venne chiesto di accentuare il suo perenne apparire perennemente spaesato e stolido, che lo poneva nelle condizioni di ricevere per l’ennesima volta l’ennesimo ceffone di riprovazione che la “fidanzata” gli somministrava fra capo e collo per il suo “non capire” e “non esserci”. Alla ragazza fu chiesto di dare dei veri “schiaffoni”, e fu interessantissimo notare la paura che aveva di esprimere in quei termini una aggressività che era comunque molto agita nel rapporto. Le riuscì di girare due sole scene, di questo tenore e il loro clima cominciò successivamente a cambiare. Nel giro di tre mesi lei rimase incinta e, subito dopo, andarono a convivere (nel video già lo facevano, ed erano i vicini di casa del ragazzo sposato alla vegliarda, di cui ascoltavano le perenne scenate).
Un altro caso narrato in un set/setting della VMT
Un giovane studente di Medicina aveva deciso di abbandonare la Facoltà, come già aveva fatto il fratello maggiore – incapace di sostenere lo stress degli esami – perché vittima di una paralizzante Sindrome di Panico, che oramai gli impediva di frequentare lezioni, studiare, recarsi all’Università, e, col tempo – allontanarsi da casa per più di cento/centocinquanta metri.
Presentatosi in terapia individuale, dopo poche sedute venne inviato al set/setting di VMT. La prima scena che dovette recitare fu una sua crisi di panico in mezzo ad una strada.
Gli venne chiesto di rappresentarla al meglio, e di cercare di fare e sentire esattamente quello che faceva e sentiva quando aveva “davvero” un attacco di panico. La scena aveva un seguito narrativo molto simpatico: una signora, piacente ma stagionata, si doveva fermare con la macchina e – vedendolo in difficoltà – chiedergli se aveva bisogno di aiuto. Lui doveva negarlo, ma la signora doveva insistere fino a che lui, sofferente e ancora sconvolto, accettava e finiva a casa della signora. La quale – con un linguaggio ed un comportamento fra il seduttivo ed il maternalistico – gli spiegava, dopo il suo racconto, come lei volesse tanto aiutarlo, soprattutto a laurearsi. Gli spiegava infatti che aveva un figlio di qualche anno più giovane e che il suo sogno era sempre stato quello di fargli fare “il dottore”, ma che lui si era sempre rifiutato di farlo, perchè – ahime – preferiva passare tutto il tempo “coi computer”.
Ovviamente, la “realtà” che la signora viveva al di fuori del “setting” era in tutto sovrapponibile a quella del personaggio che impersonava: la signora, separata dal marito, aveva da tempo “partnerizzato” molto bene l’unico figlio maschio che aveva, e sognava per lui un futuro di “dottore”, dato che – pur vivendo in città da sempre e svolgendo un lavoro di discreto profilo sociale – risentiva fortemente della prospettiva che lei stessa definiva “paesana” dei propri genitori, secondo cui un figlio “dottore” era il massimo che una madre (specie non laureata, come lei) potesse desiderare. Ovviamente non aveva mai preso in considerazione che la passione del figlio “coi computer” potesse avere un suo sbocco accademico e/o professionale di felicissima consistenza.
Il ragazzo col panico è ora un ottimo medico. Si è laureato, e non ha più alcun sintomo di quelli che lo tormentavano: sta cominciando ora a lavorare e guadagnare. Quando deve dire “come gli è passato il panico” ricorda quella scena in cui recitò se stesso e lo rivide in tv più tardi, nelle varie scene da montare.
Spiegare cosa gli sia accaduto “veramente” è impossibile: potrei descrivere il suo aver interpretato sé stesso preda del panico (e della signora che gli voleva far da “madre”) come una forma di “prescrizione di sintomo”.
Del resto, considerando le cose da questo punto di vista, tutta la VMT può essere descritta come una generale “prescrizione di sintomo”, dato che ad ognuno dei partecipanti, con la scusa di rappresentare ironicamente “se stesso”, viene di fatto chiesto di recitare i suoi tratti “sintomatologici” e caratteriali più problematici.
Ma il punto è che ci si può fare anche la domanda inversa: non può essere la “prescrizione di sintomo” dei “Terapisti Strategici” un modo per far recitare al paziente sé stesso – rendendolo “consapevole” di essere il personaggio di sé stesso in modo che cambi il copione ?
Conseguentemente, tale domanda non può non esser a sua volta fonte di una’lteriore riflessione.
Se il dilemma è infarrti fra ” il far recitare al “paziente il proprio problema è una prescrizione di sintomo”, e “la prescrizione di sintomo ad essere un modo per far recitare al paziente il proprio problema”, ciò implica che la risposta non è nella soluzione di questo dilemma.
La distanza fra teorie e prassi
Come facilmente appurabile, Milton Erickson – considerato dai Terapisti Strategici il capostipite delle Terapie Strategiche – utilizzava a piene mani il concetto di “inconscio” per spiegare i propri successi psicoterapeutici.
“La maggior parte della vita è determinata dall’inconscio” sosteneva (M. Erickson, S. Rosen, 1982), tant’è che il primo capitolo del suo libro “La mia voce ti accompagnerà” si intitola “Come provocare dei mutamenti nell’inconscio“, e il terzo “Abbiate fiducia nell’inconscio“.
Spesso nei suoi libri e nei suoi scritti si incontra l’idea che il suo operare si imperniava sull’idea che “la maggior parte della vita è determinata dall’inconscio” (op. Cit., pag. 17) ” di “poter modificare l’inconscio” e – appunto – sulla fiducia che “l’inconscio può cambiare” (op. Cit., pag. 17).
Questo non gli ha impedito di diventare appunto il padre della Terapia Strategica, ed esser preso a modello proprio da coloro secondo i quali utilizzando il concetto di “inconscio” non si possono che ottenere anni di frustranti e penosamente inefficaci terapie (Nardone. 1994).
D’altra parte, che Erickson non distinguesse il suo concetto di “inconscio” da quello freudiano è dimostrato proprio dal fatto che non ha mai pensato di prenderne teoricamente le distanze.
Coloro che ora propugnano Erickson come l’iniziatore della Terapia Strategica, dovrebbero dunque spiegare come mai la sua “terapia” funzionasse anche se lui credeva di “operare dei mutamenti nell’inconscio”, e come hanno fatto i suoi successori – cioè i Terapisti Strategici – a ottenere gli stessi risultati, e spiegarli ripudiando completamente l’idea che “la maggior parte della vita è determinata dall’inconscio” nello stesso momento in cui ammettono, con Einstein, che è la teoria a porre limiti a ciò che si può osservare.
D’altra parte, se prendiamo proprio uno dei capisaldi delle terapie sistemiche o strategiche, vale a dire l’intervento paradossale, scopriamo che uno dei primi a usarlo con una certa sistematicità fu appunto Freud, un Freud che potrebbe addirittura apparire “strategico”, dato che per poter analizzare gli agorafobici, li forzava a uscire in strada, spiegando questa prescrizione con la necessità di “liberare la libido intrappolata nell’angoscia, in modo che fosse accessibile all’analisi”.
Se poi consideriamo come – e in che modi – il Freud della pratica clinica fosse tanto distante dal Freud della teoria della tecnica, la vera domanda da porsi è perché egli non abbia mai veramente detto ciò che faceva realmente nel setting. Premesso che in trenta anni di lavoro, non sembra che Freud abbia mai modificato il suo modo di agire nel setting, occorre sottolineare un aspetto assolutamente sorprendente della sua prassi. Questo.
“La sorpresa maggiore [circa la tecnica di Freud N.d.R.] tuttavia è suscitata dall’enorme discrepanza tra gli scritti sulla teoria della tecnica, redatti fra il 1911 e il 1914, e il suo agire pratico. Sia nei racconti degli analizzati, sia negli appunti originali sull’analisi dell’ “Uomo dei Topi”, e inoltre negli accenni a questioni tecniche che possiamo trovare nella corrispondenza, ci si presenta un Freud il cui motto sembra essere: “Fa’ quel che dico, non fare ciò che faccio”. … Questo ci pone un interrogativo: perché Freud non ha detto ciò che faceva ? Dalla famosa lettera a Ferenczi, del 13 dicembre 1931, apprendiamo che fra le due pretese fondamentali c’era che si deve “difendere apertamente ciò che si fa con la propria tecnica” … Perché personalmente se ne esime ?” (Cremerius, 1985, p. 207)
Di fatto, Freud in “analisi” appare “manipolativo”, “suggestivo”, incredibilmente elastico circa la rigorosità del setting, capace di prestare soldi ai suoi pazienti come di accettare che una sua paziente gli portasse a casa ogni mattina il latte per la moglie ammalata, e – ancora – a seconda dei momenti del setting, collerico, grintoso, sereno, piacevole, filosofico, ironico, e via dicendo (Cremerius, 1985, p. 184 e seg.)
L’idea di una ortodossia freudiana è dunque lontanissima dalla vera prassi di Freud, e straordinariamente chiasmatica all’ipotesi di un Erickson che ripudi l’inconscio freudiano per poter operare “invece” strategicamente.
Un altro particolare molto interessante, nella storia della psicoterapia è lo studio dell’utilizzo del paradosso: senza molti dubbi, pare accertato che il primo a effettuare sistematicamente interventi paradossali (a parte appunto Freud) fu Alfred Adler, fondatore della Psicologia Individuale.
Secondo diversi autori (Weeks, L’Abate, 1982) egli fu appunto il primo a operare la “prescrizione del sintomo” e delle ricadute, a ristrutturare il significato della sintomatologia e delle problematiche connesse, ad aumentarne paradossalmente la gravità, e a prescrivere come terapia l’ “esercizio continuo dei sintomi”.
Il punto è che Adler, per spiegare l’efficacia delle sue prescrizione paradossale, ricorreva alla dialettica hegeliana, sostenendo appunto che la base operativa della sua psicoterapia fosse il pensiero dialettico: un’idea questa poi ripresa anche da Weeks (Weeks, L’Abate, 1982).
Vi sono poi molti altri autori che hanno utilizzato gli interventi paradossali: Frankl, l’inventore delle Logoterapia esistenziale, che considerò la “prescrizione paradossale” come un rimedio applicabile a qualunque disfunzione nevrotica o psicotica, o l’inventore della “psicoanalisi diretta”, Rosen, o – anche – esponenti della terapia della Gestalt, come Lewitsky e Perls (Weeks, L’Abate, 1982).
A questo punto, sembra abbastanza chiaro dedurre che l’uso del paradosso in psicoterapia avviene – come per l’inconscio di Erickson – in modo paradossale: ognuno ne dà la spiegazione che ritiene più adeguata, ivi compresi, in ciò, i terapisti di impostazione strategica, che spiegano l’efficacia della propria teoria attraverso teorie che non sono quelle dell’Autore (Erickson, appunto) cui le loro tecniche si ispirano.
Ma i problemi relativi alla distanza fra la prassi e la teoria diventano semplicemente impossibili ad essere risolti se andiamo a considerare cosa faceva Ferenczi nel suo setting: leggendo la descrizione della sua prassi, occorre chiedersi come mai il fatto che egli venga ancora considerato “freudiano” non comporti almeno il chiedersi cosa significhi oggi dichiarare l’appartenenza di un autore (o di sé stessi) ad una determinata “teoria”.
Vediamo dunque cosa faceva davvero l’ungherese:
” Intanto, la regola che vuole il paziente sdraiato sul divano. Ferenczi dichiara agli psicoanalisti raccolti per 11o Congresso Internazionale di Psicoanalisi di non averla sempre osservata.
Se i suoi pazienti sentono l’impulso di alzarsi, di camminare per la stanza dell’analisi e di parIare guardandolo in faccia Ferenczi glielo concede. Quando si è trattato di interrompere un’analisi odi proseguirla gratis, è stata la seconda via quella da lui seguita e senza pentimento postumo. Un’evenienza, a dire il vero non rarissima nei primi tempi psicoanalitici.
La lista delle infrazioni non risparmia neanche la stabilità del luogo analitico. Ferenczi, come sappiamo, portava con sé i propri pazienti quando si recava in villeggiatura. In occasione del congresso oxfordiano egli ricorda come avesse deciso lui di spostarsi a casa d’un suo paziente, allorché questi giaceva a letto gravemente malato. Né é risparmiata la sacra ora analitica (che non è, tra l’alto, un’ora, sebbene porti ancora questo nome). Ferenczi la estende nei casi “non rari” in cui si tratta di attendere che l’effetto traumatico dell’interruzione dell’analisi trovi il suo sfogo adeguato, il che comporta anche un allungamento della singola seduta “a due o più ore” ogni giorno.
Ferenczi stesso ha voluto provare, con Ia paziente B. In veste di analista, la libertà che deriva dall’essere pazienti in contesto neocatartico e di analisi reciproca, ovvero pazienti cui viene usata l’indulgenza (e a cui viene concesso) di fare gli analisti.
Nell’occasione egli confessa di aver esultato “per la libertà riconquistata e per l’assenza di ogni freno” che gli veniva concessa. E prosegue: in cambio di urla e insulti pretesi tenerezza, gentilezza, chiesi che mi accarezzasse la testa, volli essere ricompensato di tutti i miei con l’affetto, la tenerezza, con abbracci e baci”.
Questa situazione di indulgenza corporea, come sappiamo, Ferenczi ebbe a sperimentarla anche, tra l’altro, con la paziente Clara Thompson, la quale si vantava (vanto che alle orecchie di Freud risuonava sinistro) di poter baciare “papà Ferenczi” ogni volta che lo voleva. ” (Antonelli, 1996, pag. 350).
La conclusione è tanto suggestiva quanto logica:
“Non a caso, Sabourin ha potuto includere includere, in quella che chiama “l’eredità sospesa” di Ferenczi, anche nomi di terapeuti sistemici (Bateson, Mara Selvini Palazzoli, Whitaker). La tecnica attiva è paradossale perché rinforza (Ferenczi scrive “provoca un aumento della”) resistenza, “in quanto stimola la suscettibilità dell’Io” ed esacerba i sintomi nella misura in cui innalza il livello del conflitto interno” (Antonelli, op. cit., pag. 328).
Una critica alla critica
Per approfondire ulteriormente gli aspetti sino ad ora esposti della questione, è a mio avviso opportuno prendere ancora in considerazione un aspetto molto caratteristico di quanto offre oggi la letteratura psicoterapica.
Una delle critiche attualmente più in voga è quella portata dagli esponenti delle cosiddette “Terapie Strategiche” alla psicoanalisi, e in genere a tutte le teorie di impostazione simile, delle quali viene più volte ribadita l’inefficienza e l’inefficacia clinica (Nardone, 1994).
Come si sa, a sostegno di tali critiche ci si imbatte spesso in ironici ma lucidi “manuali” colmi di avvertenze per gli sprovveduti che dovessero cadere nelle mani degli “ortodossi” freudiani o degli esponenti di altre psicoterapie analitiche o, semplicemente, di terapie di derivazione altra rispetto alla loro, descritte puntualmente come teorie portatrici di verità “fideistiche”, del tutto prive di “validità scientifica”, che conducono i malati in mano a psicoterapeuti quanto meno stolidi se non del tutto disonesti, e il cui interesse è curare per decenni la gente con teorie inesistenti e prassi inverificabili e creando montagne in grado di partorire solo topolini (Nardone, 1993).
Gran parte di questa critica si fonda su un dato: le terapie psicanalitiche non hanno fondamenti scientifici, perché si basano su un’ipotesi, l’inconscio, che è assolutamente infondata. La relativa possibilità che l’ “insight” garantisca la guarigione, è un assurdo scientifico.
L’altra parte di queste critiche si fonda invece sui dati statistici, secondo i quali i trattamenti psicoanalitici sono di gran lunga i più inefficienti, e – inoltre – scarsamente efficaci (Nardone, 1993).
Abbiamo già visto l’importanza che Erickson attribuiva al concetto di inconscio: il che equivale appunto a dire che le spiegazioni non spiegano ciò che faceva Erickson, ma spiegano cosa Erickson pensasse del proprio operare.
Conseguentemente, è ovvio dedurre che una terapia di impostazione costruttivistica, quale la Terapia Strategica, non può spiegare sé stessa attraverso l’oggettività dell’esistenza o della non esistenza dell’inconscio, in quanto dato di cui appurare appunto la “reale” o “non reale” esistenza.
La spiegazione migliore di questo mio assunto è proprio nel fatto che Erickson potesse operare in modo da esser considerato successivamente (e non a caso: le “spiegazioni” sono sempre date a posteriori e da un osservatore) il caposcuola della Terapia Strategica, ma al tempo stesso spiegare i propri risultati attraverso l’operare con e nel l’inconscio. Il fatto è che nel costruttivismo ogni spiegazione non si fonda sull’oggettività dei propri argomenti, ma è a sua volta spiegata come un operare dell’osservatore in un determinato dominio di esistenza.
In tale logica ogni contesa è frutto di un operare in premesse differenti ma non “sbagliate” (perché non ne esistono di “vere”).
Gli autori che operano attraverso quella che definiscono la “Terapia Strategica”, dovrebbero dunque spiegare – attraverso un nuovo dominio di esistenza – come è possibile che l’ “inconscio” fosse un utile modello esplicativo nelle mani di Erickson, e perché sembra non esserlo nelle mani degli psicoanalisti (che credono di averlo scoperto). Non dovrebbero invece affannarsi a negarne l’esistenza, perché nella logica costruttivistica il problema non può porsi convalidando le proprie asserzioni attraverso ciò che è vero e ciò che non lo è.
Un altro paradosso nella critica in questione è che essa si fonda su una teoria che – pur prendendo le distanze dalla logica aristotelica – utilizza dei “protocolli specifici di trattamento”, che sono appunto specifici a seconda dei grandi raggruppamenti sindromici che la teoria descrive; inoltre, la stessa teoria utilizza una metodologia di ricerca che dichiaratamente descrive come la stessa indicata da Popper nel processo di avanzamento della scienza.
Il punto è che in tale logica (quella appunto dei “protocolli specifici di trattamento”) , il “sintomo” – che è di fatto una regolarità esperita come tale dall’osservatore sulla base delle proprie premesse – non viene trattato come “comportamento”, ma come una entità esistente a priori della corporeità che lo esprime, e del dominio di interazione in cui noi lo osserviamo.
Nella Biologia della conoscenza, che del costruttivismo cui si ispira la teoria in questione è una delle teorie di riferimento, il “sintomo” è un comportamento e come tale emerge solo nel dominio di una interazione, cioè in una relazione: “Le teorie biologiche della depressione operano tale riduzione nel momento in cui tale imputano tale fenomeno ad una deficienza biochimica cerebrale. Ciò è sicuramente possibile, ma la depressione in sé appartiene solamente alla relazione. … la depressione non è localizzata nella situazione biochimica ma nella relazione tra organismo e ambiente“. (Ruiz, 1996, trad. it., PM Rivista Telematica).
Non è possibile dunque concepire il sintomo psicopatologico da un punto di vista costruttivistico, e poi affrontarlo come un “comportamento” che può essere modificato mediante “protocolli” predefiniti, cioè di comportamenti oggettivabili al di fuori della relazione in cui emergono. Sostenere il contrario significa sostenere che la “realtà” non viene costruita nella relazione in cui la si osserva.
In altri termini, da un punto di vista costruttivistico è tutto da dimostrare che una terapia funzioni o non funzioni perché sono esatte le premesse teoriche in base alle quali i suoi terapisti credono di operare: i nessi causa-effetto sono nessi dell’osservatore, ed è da dimostrare che la capacità dello psicoterapeuta abbia qualcosa a che vedere con l’ “esattezza” della teoria attraverso cui crede di ottenere i suoi successi.
Questo non vuol dire che i “protocolli” suddetti non funzionino: ma la loro efficacia non è spiegata né dal loro essere “protocolli” (una regolarità descritta come tale dall’osservatori, a posteriori del proprio operare), né dal loro essere giusti.
Un altro punto che occorre mettere in discussione è la distinzione che nei testi di Terapia Strategica si fa tra le terapie utilizzano una logica persuasiva di tipo Cartesiano (secondo gli autori dei contributi strategici: la psicoanalisi e la quasi totalità delle moderne psicoterapie, comprese quelle di ispirazione comportamentistica e gran parte delle cognitivistiche) e quelle che fanno capo alla scuola di retorica e persuasione di Pascal, di natura sofistica e suggestiva (la Terapia Strategica) (Nardone, 1997).
Le prime psicoterapie, secondo questi autori, sarebbero ti tipo razionalistico e dimostrativo, e tenterebbero di operare mediante un processo “persuasorio” graduale, in cui “il cambiamento” del “paziente” avverrebbe successivamente a questa persuasione. Le seconde opererebbero invece attraverso un uso deliberato di una comunicazione “ingiuntiva” e “persuasoria”: il “cambiamento” del “paziente” avverrebbe per effetto di strategie volte direttamente a influenzarlo modificando i suoi “sistemi rappresentazionali”: “Il terapeuta, nell’ottica di produrre rapidi ed effettivi cambiamenti, si assume la responsabilità di influenzare concretamente il comportamento e le disposizioni del “paziente” ” (Nardone e Watzlawick, 1997, pag. 79).
Il punto è però proprio questo: dalla Biologia della Conoscenza noi sappiamo che non si può “influenzare” proprio nessuno, e proprio perché – essendo il linguaggio connotativo e non denotativo – il senso del messaggio sarà determinato dal ricevente e “in senso stretto allora non vi è alcun trasferimento di pensiero dal parlante al suo interlocutore“(Maturana e Varela, 1985, pag. 80); quello che accade, invece, è che si crede di “aver influenzato qualcuno”: “Tuttavia, poiché il risultato dell’interazione è determinato nel dominio cognitivo dell’orientato indipendentemente dal significato del messaggio nel dominio cognitivo dell’orientatore, la funzione denotativa del messaggio sta solo nel dominio cognitivo dell’osservatore e non nell’efficacia operativa della interazione comunicativa“(Maturana e Varela, 1985, pag. 81).
Anche qui, l’efficacia delle Terapie Strategiche – ammesso che una simile definizione abbia senso (alla pari dei nomi dati ad altre “psicoterapie”) – non può essere spiegata attraverso la teoria a chi la utilizza appare spiegarla: da un punto di vista costruttivistico non ha senso distinguere tra un comportamento destinato ad influenzare il paziente ed uno destinato a non influenzarlo: questa distinzione ha un senso per lo psicoterapeuta, non per il paziente.
E non perché non si può non comunicare: ma perché ogni comunicazione – essendo connotativa e non denotativa – ha il significato che le viene attribuito appunto dal ricevente e non “influenza” nessuno, perché “nella comunicazione non c’è trasmissione di informazione mentre c’è comunicazione ogni volta che c’è coordinazione comportamentale in un dominio di accoppiamento strutturale. … Secondo la metafora del canale di comunicazione, la comunicazione è qualcosa che si genera in u punto, viene fatta passare attraverso un condotto, e raggiunge l’altra estremità ricevente. … Secondo quanto abbiamo analizzato, questa metafora è fondamentalmente falsa, perché suppone un’unità non determinata strutturalmente, in cui le interazioni sono istruttive, come se ciò che accade a un sistema in una interazione fosse determinato dall’agente perturbante e non dalla sua dinamica strutturale. Tuttavia è evidente, anche nella vita di tutti i giorni, che la comunicazione non si verifica così: ogni persona dice ciò che dice e ascolta ciò che ascolta, secondo la propria determinazione strutturale. Dal punto di vista di un osservatore c’è sempre ambiguità in un’interazione comunicativa. Il fenomeno della comunicazione non dipende da quello che si trasmette, ma da quello che accade con chi riceve. E questo è ben diverso dal “trasmettere informazione“. (Maturana e Varela, 1992, pag. 169)
Questo implica che nessuno -in nessuna terapia – può essere “influenzato”, e che nessun “protocollo” viene trasmesso in quanto tale: almeno secondo il senso che normalmente diamo a questi concetti. Di fatto, ciò che accade, accade a seconda che si riesca a creare un dominio interattivo in cui le regole siano condivise come regole.
Da questo punto di vista, dunque, la distinzione fra psicoterapie “cartesiane” e psicoterapie “alla Pascal” non ha senso, se la si utilizza per distinguere “realmente” tra varie “psicoterapie” a seconda della intenzione o meno di influenzare il paziente. Ciò che questa distinzione distingue, sono le premesse con cui l’osservatore – lo psicoterapeuta – spiega il proprio operato.
Vorrei riportare ora due note, una di Jay Haley relativa ai rapporti fra Bateson e il gruppo che sviluppò le Terapie Strategiche al MRI, e una di Ruiz circa il rapporto fra Bateson e Humberto Maturana.
Nel suo “La Terapia del Problem Solving”, Haley dice testualmente:
“E’ qui opportuno chiarire un equivoco. Si sentono spesso riferimenti al “Gruppo di Palo Alto” e alle sue idee sulla comunicazione; in realtà, esistevano due gruppi con idee abbastanza diverse. C’era quello diretto da Gregory Bateson, che sviluppava la teoria del Doppio Legame e che si è mantenuto in vita a Palo Alto (in realtà, a Menlo Park) dal 1952 al 1962. I componenti a tempo pieno del progetto erano, oltre allo stesso Bateson, John Weakland, e il sottoscritto; c’erano anche, come consulenti psichiatrici “part time”, Don D. Jackson, e William F. Frey. Il gruppo si mantenne unito per dieci anni e pubblicò più di settanta articoli e libri specialmente nel campo della schizofrenia, dell’ipnosi e della terapia; l’interesse principale era però costituito dallo studio del paradosso nella comunicazione.
Mentre il progetto di Bateson si stava esaurendo, Jackson formò il Mental Research Institute a Palo Alto, con un altro gruppo che aveva solo un rapporto per così dire sociale con quello del progetto di Bateson sul Doppio Legame.
Anche se i due gruppi sono stati confusi l’uno con l’altro, Bateson in realtà declinò l’invito ad associarsi al Mental Research Institute e preferì evitare che il suo programma fosse confuso con l’altro.” (Haley, 1985, nota di pag. 15)
Per quanto riguarda i rapporti fra Bateson e Maturana, ecco invece cosa ci dice Ruiz:
“Quando, verso la fine della sua vita, chiesero a Bateson chi era in grado di continuare lo studio della “Creatura”, egli rispose che “Il Centro per questo studio è ora in Santiago, Cile, diretto da un uomo chiamato Maturana” (citato in Dell, 1985, p. 5)” (Ruiz, 1996, trad. it., PM Rivista Telematica).
Appare dunque abbastanza comprensibile che Bateson non condivise mai più di tanto il lavoro e le idee del c.d. “Gruppo di Palo Alto”, mentre riconobbe nell’opera di Maturana la continuazione della propria.
Vi è poi un altro punto che trovo opinabile, rispetto alle critiche contro le terapie analitiche stilate dai fautori delle Terapie Strategiche, ed è l’utilizzo che – per supportare tali critiche – viene fatto delle statistiche in psicoterapia.
Come noto, a dire di questi autori (Nardone, 1990, 1994), le statistiche sembrano dimostrare che la psicoanalisi e i trattamenti di impostazione analitica hanno una scarsissima efficacia, nonché un’efficienza pari a zero, dando così la possibilità a chi segue altre terapie di ipotizzare che gran parte degli psicoanalisti e degli psicoterapeuti di impostazione non costruttivista siano degli sprovveduti se non degli imbroglioni.
Ho già detto come a mio parere non si possa considerare valido il metodo statistico nello studio dell’efficacia delle psicoterapie, perché in psicoterapia non è possibile la sperimentazione a doppio cieco, il che ci rende conto che la psicoterapia non può essere trattata alla stregua di una “sostanza” della quale verificare caratteristiche e regolarità.
Anche se si volesse a ciò obiettare che anche per gli interventi chirurgici non è possibile tale sperimentazione, occorrerebbe tuttavia dimostrare che la ripetibilità del gesto operatorio (che si confronta con strutture organiche definite e prevedibili) sia la stessa ripetibilità delle tecniche psicoterapeutiche (che – all’opposto – emerge come tale in relazioni tra loro sempre differenti).
Da questo punto di vista, il punto ritorna allora o ad ammettere un’oggettività terza all’osservatore (definendo il sintomo ed il comportamento come entità oggettivabili a priori) – e dunque ad uscire completamente dall’ipotesi costruttivistica, o ad ammettere che in psicoterapia le teorie non hanno nulla a che fare con i risultati ottenuti (e con il modo attraverso cui vengono raggiunti).
A mio avviso, il punto è nel capovolgere completamente il senso che hanno le statistiche in psicoterapia. Non considerandole più come indici della validità dei diversi sistemi teorici, bensì come statistica sulle credenze degli psicoterapeuti rispetto ai problemi psicologici e al loro trattamento. Dovrebbe essere infatti ormai abbastanza assodato che quel che un “psicoterapeuta” dice (e crede) di fare nel proprio studio ha con la teoria cui si ispira solo un legame per così dire di identità argomentativa: ogni “psicoterapeuta” spiega cioè il proprio comportamento attraverso la teoria cui si ispira, e se ne conferma così la possibilità e validità di utilizzo.
D’altra parte, proprio in tema di statistiche a breve o lungo termine, vorrei riferire due esperienze personali.
La strana guarigione dell’uomo delle telecamere e la donna rimessa a nuovo in quindici sedute
La prima, concerne un articolo scientifico, destinato a descrivere gli eccellenti risultati di una terapia a impostazione non psicanalitica ed “eretica”.
In tale articolo si narra un caso che ha molti punti in comune con uno che ho conosciuto personalmente.
Un uomo etichettato come schizofrenico che riteneva di essere spiato dai suoi vicini mediante telecamere, venne avviato ad una terapia breve con un “benevolo inganno”: quello di aiutare la terapia di sua figlia, che lui sapeva depressa. Giunto in tal modo dal direttore di un famoso centro per tali tipi di cure, il “paziente” guarì prontamente.
Effettivamente, proprio nel periodo indicato nell’articolo (vi si legge infatti un preciso riferimento fra un evento di cronaca e uno sviluppo della storia clinica del “paziente” ), una mia “paziente” – avendo un padre etichettato come schizofrenico e non sapendo come curarlo – mi chiese aiuto. La fissazione di quest’uomo – parimenti al caso descritto nell’articolo – era quella di essere spiato dai vicini con delle telecamere, i quali, a suo dire, volevano vederlo nudo contro il suo parere (come descritto nell’articolo).
Non volendo visitare io questo paziente, perché timoroso che ne venisse danneggiato la psicoterapia della figlia, e affascinato da alcune terapie innovative che promettevano risultati eccezionali in tempi brevi, consigliai alla ragazza il Centro citato in questo articolo e chiamai personalmente il direttore di uno di essi. Gli esposi il caso, e – dopo avergli fatto presente che il “paziente” rifiutava qualunque intervento – suggerii io di utilizzare come “esca” appunto la figlia: il “paziente” sapeva che la ragazza era in cura da me, e sapeva che la madre di costei – sua ex moglie, cui da tempo era separato ma di cui sicuramente voleva ritrovare le attenzioni – non condivideva l’analisi condotta dalla figlia. Grazie a questa scusa, l’uomo si recò con tutta la famiglia al centro, fu preso effettivamente in cura da questo, fu curato dall’estensore dell’articolo nei modi descritti nell’articolo, e nel giro di pochi mesi ottenne uno spettacolare miglioramento, che io stesso ritenni miracoloso.
Tutte le somiglianze fra il caso da me conosciuto e quello descritto nell’articolo non bastano a sostenere che si tratti dello stesso caso: situazioni del genere sono molto comuni, e quel tipo di terapia è abbastanza standardizzato. Sta di fatto però che il caso di cui io sono a conoscenza ebbe uno sviluppo che l’articolo non descrive affatto e che seguì a un cosiddetto intervento breve svolto proprio dall’autore dell’articolo.
Il padre della mia “paziente” peggiorò drammaticamente nel giro di un anno, e tutti gli effetti della miracolosa terapia svanirono nel nulla, al punto che la famiglia – disperata per la ricaduta e non credendo più ad alcuna psicoterapia (fra l’altro, l’uomo era stato nel frattempo denunciato per vari reati commessi grazie alla convinzione che i vicini lo spiassero di nuovo) – lo ricoverò in una clinica “specializzata”.
Qui venne imbottito in modo spaventoso di farmaci, al punto che la figlia, andandolo a trovare dopo un po’ di tempo, lo trovò quasi immobile, preda di un gravissimo parkinsonismo da neurolettici. La ragazza fece in modo di farlo dimettere il giorno stesso, e fu solo da quel momento – probabilmente terrorizzato dal finire nuovamente in clinica – che l’uomo non parlò più né di telecamere né di vicini che lo spiavano. Tutto questo sviluppo, nell’articolo, non è affatto descritto: non vi è un accenno alla totale dissoluzione dei benefici della miracolosa terapia, non vi è nessun accenno al successivo ricovero in clinica, e il “paziente” sembra miracolosamente e per sempre guarito nel giro di poco tempo.
Indubbiamente, il caso citato dall’articolo potrebbe non essere lo stesso caso che io seguii e inviai a quel Centro, ma è comunque utile ricordare che non sempre le terapie brevi hanno risultati lunghi e durevoli, così come è utile chiedersi se a protocolli ben definiti non seguano sviluppi prossimi e remoti altrettanto simili.
Qualche anno dopo il caso ora descritto, ho provveduto ad inviare ancora ad un centro filiazione del precedente – una “paziente” definita psicotica, di cui già avevo in terapia individuale alcuni conoscenti. Trattandosi di un gruppo di persone che viveva nello stesso piccolo ambiente sociale (un paesino umbro, dove abbondavano commenti e pettegolezzi) mi sembrò opportuno inviarla a dei colleghi di cui il centro madre mi aveva detto appunto mirabilie.
Anche qui, la partenza del centro in questione – che utilizzava esattamente le stesse tecniche del precedente, dato che ne era appunto una filiazione – fu fulminante. Il caso venne risolto in quindici sedute, e io telefonai alla collega per complimentarmi, tanto sembrava aver avuto risultati eccezionali.
Purtroppo nel giro di un anno la “paziente” – una donna di circa trentacinque anni – peggiorò di nuovo a vista d’occhio, al punto che i parenti vennero a fare a me le loro rimostranze. Dato che la malata era ormai del tutto determinata ad evitare qualunque terapia, farmacologica o no, fu per me giocoforza cominciare una terapia familiare da cui era assente la “paziente” designata. I risultati che sto ottenendo mi sembrano incoraggianti.
Una teoria sulle teorie
Quello che intendo sostenere è che non è possibile spiegare ciò che definiamo “psicoterapia” in termini “costruttivistici”, e poi convincersi che esistano “terapie” efficienti, efficaci, veloci, da contrapporre a “terapie” ingannevoli, lunghe, obsolete.
In primis, occorrerebbe semmai spiegare le varie differenze presupponendo che, in realtà, esistono psicoterapeuti e pazienti che credono chi in terapie veloci chi in terapie lunghe; successivamente, sarei del parere che una divisione di tal tipo delle “psicoterapie” è di fatto una delle più classiche costruzioni (o “spiegazioni”) di una scienza che non ha superato l’idea di un’oggettività terza all’osservatore, che non condivide l’assunto che la “realtà” emerge – come l’autocoscienza – nel linguaggio ed è una spiegazione data da un osservatore ad un altro osservatore, e che non concorda con la concezione del Multiversum, nel quale ogni relazione crea le realtà che osserva.
In altri termini criticare la psicanalisi sulla base dell’idea che non funziona – soprattutto perché appartiene basata sui tentativi di generare “insight” e non “cambiamenti nella percezione del problema” – è contraddire l’epistemologia costruttivistica in cui ogni scienza è un dominio di riflessione linguistica e in cui i concetti di “realtà”, “autocoscienza”, “spiegazione scientifica”, e “osservatore” emergono come spiegazioni dell’osservatore.
Di fatto, nel Multiversum costruttivista la spiegazione scientifica esprime le premesse dell’osservatore e ne spiega – su tale base – l’esperienza, permettendogli di concordare modelli di esperienza con altri osservatori. Non spiega però una realtà dimostrabile oggettivamente (Maturana, 1997).
D’altra parte, appare molto più interessante rileggere in questo senso quel che dice uno psicanalista apparentemente ortodosso come Gill al proposito:
“…dovrebbe esser chiaro che è impossibile fare un’interpretazione che al tempo stesso non sia un suggerimento, oppure, messa in un altro modo, un’azione. Dal momento che la stessa cosa è vera per l’influenza dell’analizzando sull’analista, la situazione analitica può essere descritta come un’interazione, oppure come propongono Stolorow e collaboratori alla luce del costruttivismo, un’interazione intersoggettiva “(M. M. Gill,, 1996, p. 54).
Questo equivale a dire che si può “influenzare” un “paziente” attraverso una interpretazione quanto si può creare un “insight” attraverso una prescrizione, perché la differenza tra “insight” e “cambiamento nella percezione del problema” non esiste in termini cognitivi, essendo entrambi due comportamenti di autoorientamento entro i propri domini cognitivi, vale a dire essendo entrambi – dal punto di vista della Biologia della Conoscenza – un operare con una riflessione linguistica all’interno delle proprie riflessioni linguistiche.
A rovescio, mi sembra importante un episodio relativo alla VMT. In una delle tante storie narrate, vi era quella di una ragazza che non riusciva più a sostenere i suoi esami universitari. Lo “psicoterapeuta” dei video si improvvisava “terapista breve” e, dopo essersi letto in fretta e furia un manuale di “Self help di psicoterapia strategica”, prescriveva al “paziente” i protocolli specifici che ivi aveva appreso: e che erano gli stessi che alla ragazza lo stesso psicoterapeuta aveva prescritto nella realtà.
Nel video, il somministrare tale prescrizione non impediva allo psicoterapeuta di operare comunque nei propri interessi, creando, tra collusioni e ammiccamenti vari, un contesto in cui sia a lui che alla “paziente” appariva più comodo non cambiare nulla.
La stessa prescrizione fu affidata alla ragazza nella realtà, e funzionò alla perfezione: la tacita intesa, a quel punto, non era tanto nella esecuzione della stessa, ma nel senso di “impegno” che ci si assume nel momento in cui ci si mette in gioco in un contesto di trasformazione come è quello che definiamo “psicoterapia”.
Se poi concordiamo con gli assunti secondo i quali:
– “la conoscenza è un comportamento definito adeguato in un contesto preciso, cioè in un dominio che definiamo con una domanda (esplicita o implicita) che formuliamo come osservatori” (Maturana e Varela, 1992, pag. 153)
e
“I sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto processo è un processo di cognizione” (Maturana e Varela, 1985, pag. 59)
Ci dobbiamo rendere conto che le differenze fra le varie teorie psicoterapeutiche e fra i modi che ciascuna utilizza per descrivere i propri obbiettivi e i propri risultati, altro non sono che spiegazioni date da osservatori posti in differenti – ma non incompatibili – domini di riflessione linguistica:
“Le distinzioni avvengono nel dominio empirico, nell’immediatezza del vivere, nella prassi dell’osservatore come essere umano. Per questa ragione il dominio delle coerenze operative che un osservatore costruisce come dominio d’esistenza di un’unità si attua anch’esso nel dominio empirico dell’osservatore come essere umano, come parte della sua prassi. Dunque, dal momento che il linguaggio è agire in un dominio di coordinazioni ricorsive consensuali di azioni consensuali nel dominio empirico degli osservatori come esseri umani, tutte le dimensioni dei domini empirici degli osservatori esistono linguisticamente come coordinazioni comportamentali tra osservatori. Quindi tutte le descrizioni costituiscono configurazioni di coordinazioni comportamentali in alcune delle dimensioni dei domini empirici dei membri de una comunità di osservatori che sono coinvolti in una deriva strutturale co-ontogenetica. La fisica, la biologia, la matematica, la filosofia, la cucina, la politica ecc., sono tutti domini di attività linguistica e come tali sono tutti domini diversi di coordinazioni ricorsive consensuali di azioni consensuali nella prassi o nelle circostanze di vita dei membri di una comunità di osservatori. Solo in quanto domini di attività linguistica diversi esistono la fisica, la biologia, la filosofia, la cucina, la politica o qualsivoglia dominio cognitivo. Nondimeno, ciò non significa che tutti i domini cognitivi siano uguali, significa solamente che domini cognitivi diversi esistono soltanto fino a che sono realizzati nel linguaggio, ed è l’attività linguistica a fondarli.” (Maturana, 1993, pag. 112)
In sintesi, le teorie in psicoterapia non servono dunque a curare il paziente ma a orientare lo psicoterapeuta nella sua interazione con il dominio di interazione che costruisce col paziente.
Da questo punto di vista, l’esperienza della VMT è abbastanza emblematica proprio perché nella costruzione delle storie è possibile esperire come qualunque parere o presa di posizione dello “psicoterapeuta” – in special modo quelle a sfavore degli interesse del “paziente” – possa essere spiegata (o spacciata) attraverso qualsiasi categoria analitiche o psicoterapica: appare infatti impossibile individuare – fra ciò che dice lo “psicoterapeuta” nei video e ciò che può dire nel setting – una differenza in termini di congruenza, funzionalità e, men che meno, oggettività.
Sto dicendo, in altri termini, che quello che viene detto dallo “psicoterapeuta” nelle scene girate, e quello che viene detto dallo psicoterapeuta nel setting, hanno fra loro 1o stesso livello di oggettivabilità e di congruenza con le problematiche del “paziente” , e sono distinguibili solo per la finalità etica che li ispira o che ne manca.
La sola e unica differenza che si può cogliere non è dunque in termini di “falsificabilità” o “infalsificabilità” dei dati, ma in termini di Etica.
Scano (Scano, 1999) ha proposto invece una interessante applicazione della metafora “del sottomarino” alla psicoterapia, sostenendo appunto che – allorché si fa psicoterapia – si fa qualcosa che sta in rapporto alle “verità” della teoria utilizzata quanto gli “scogli” e il “mare” lo sono agli indici di colui che nella metafora di Maturana e Varela guida il sottomarino della conoscenza.
Come noto, Maturana e Varela, hanno metaforizzato (Maturana e Varela, 1992) il problema della conoscenza umana presentando l’essere umano che si orienta nel mondo come se fosse un tale che manovra un sottomarino ignorando tutto di quanto esiste all’esterno di esso (e ignorando pure che esista, un qualcosa di “oltre” al sottomarino), ma sapendo solo orientarsi fra gli indici e gli indici degli indici della sua strumentazione.
Quello che è importante, non è tanto la conoscenza “reale” che questo manovratore ha del mondo “la fuori”, perché quella conoscenza sarà sempre mediata comunque dalla sua strumentazione. Von Foerster al proposito dice: “là fuori” (cioè: nel mondo fisico e della fisica) “il rosso non esiste” (von Foerster, 1986): il “rosso”, come colore e come “rosso”, è una nostra creazione.
Per il manovratore del sottomarino non è dunque importante conoscere “veramente” gli scogli, le catene montuose sottomarine o i crepacci, ma la sua abilità a mantenere entro certe costanti gli indici e gli indici degli indici che fanno navigare il suo sottomarino in sicurezza in quel mondo.
Se la conoscenza è questo manovrare nel mondo attraverso gli indici (e attraverso dunque le modalità sensoeffettrici) del nostro determinismo strutturale, la psicoterapia deve essere un sottomarino che naviga in qualche modo entro questo sottomarino.
Continua Scano: “gli osservatori (Freud e giù tutti i suoi nipotini sino a tutti noi) descrivono le sue prestazioni e raccontano che fa questo e fa quello e per questo e per quello e anche con buone ragioni in quei contesti e in quei domini del discorso. Può essere però che i piloti dello strano sottomarino (che non sono gli “Io narranti”) abbiano a che fare solo con indici e non sappiano nulla di interpretazioni, di transfert o di esperienze correttive. Tali indici potrebbero in ultima analisi stare giusto un gradino sopra a quelli del sottomarino di Maturana, magari nell’ interfaccia virtuale della loro intersezione, e istruire le condizioni per decidere “stop”, “avanti”, “indietro”, “buono”, non buono”…(questa potrebbe persino essere una sorta di … definizione biologico-culturale della verità. E’ questo il punto di vista a partire dal quale mi piace pensare che il problema più importante nella psicoterapia è, in questo momento, il problema del metodo. E’ anche una cornice che va, da un lato, in direzione del “q.b. di riduzionismo” mentre dall’altro permette di minimizzare le differenze molto robuste nei racconti degli osservatori delle evoluzioni del sottomarino.” (Scano, 1999)
Il senso della “teoria” psicoterapica emerge qui: quale che essa sia, costruisce un dominio di riflessione linguistica attraverso cui lo psicoterapeuta è in grado di spiegare a sé stesso la propria interazione con il dominio di interazione col paziente.
Il senso della teoria psicoterapica, è dunque quello di permettere al terapeuta di navigare all’interno della propria navigazione col paziente, mantenendo uniti – ad un livello – e separati – all’altro – i contesti della relazione attraverso cui egli opera. In questo senso, distinguendo ad esempio lo stesso nesso relazionale in “transfert” e “sentimento”, egli può creare un dominio di interazione (attraverso il concetto di “transfert”) con il dominio della relazione (lo spazio del sentimento).
In questo senso, è la teoria che crea la dimensione transcontestuale tipica della psicoterapia, e permette così di modificare la relazione con l’altra persona, e dunque modificare ciò che emerge da essa – vale a dire l’autocoscienza e la realtà che attraverso essa vengono esperite.
L’aspetto etico della psicoterapia consiste nel dare alle teorie questa funzione di mappa di orientamento per lo psicoterapeuta nell’interesse del paziente, non utilizzandole come chiave di oggettività sovrastante il paziente .
A rovescio, la tipica possibile patologia dello psicoterapeuta prevede che egli usi la propria teoria per gestire le relazioni personali onde evitare il coinvolgimento affettivo che ne deriverebbe (Guggenbül-Craig 1987).
L’inconscio come modello esplicativo
Alcuni cenni teorici
Il concetto di “inconscio” è – dal punto di vista delle spiegazioni scientifiche (nel senso di Maturana) – un utilissimo modello esplicativo che ci rende atto delle fasi attraverso cui – creando la “realtà” (fra cui comprendo anche l’esperienza che facciamo di noi stessi) – dobbiamo dimenticare la nostra partecipazione a tale creazione per conservare il nostro senso di stabilità e ricorsività descrittiva di un mondo che contenga l’ordine di cui noi abbiamo bisogno:
“un oggetto viene realizzato nel linguaggio in un’operazione di distinzione che è una configurazione di coordinazioni comportamentali consensuali. Quando un oggetto viene distinto linguisticamente, il suo dominio d’esistenza come dominio coerente di coordinazioni comportamentali consensuali diventa un dominio di oggetti, un dominio di realtà, un versum di multiversi, cosicchè ciò che esso implica è sempre e soltanto ciò che è implicato nelle coordinazioni comportamentali consensuali che lo costituiscono. Ogni dominio di esistenza è un dominio di realtà, e tutti i domini di realtà sono domini di esistenza ugualmente validi costruiti da un osservatore come domini di azioni consensuali coerenti che definiscono tutto quello che c’è in essi. Una volta che un dominio di realtà è stato costruito, l’osservatore può trattare gli oggetti o entità che lo costituiscono come se fossero tutto quello che c’è e come se esistessero indipendentemente dalle operazioni di distinzione che li generano” (Maturana, 1993 pag. 118).
Dal mio punto di vista, l’ “inconscio” è dunque un processo, ed “è” questa capacità di trattare le descrizioni delle descrizioni di noi stessi e del mondo, questa capacità cioè di costruire domini di “realtà” trattando tutti gli oggetti che lo costituiscono come indipendenti dalle operazioni con cui li abbiamo costruiti.
Conseguentemente, la spiegazione che io do a quei comportamenti definiti come “psicopatologia” è dedotta da tali premesse e dalla definizione che in Biologia della Conoscenza ci viene data dell'”Io” – e della necessità dell’Io: “nella rete di interazioni in cui ci muoviamo manteniamo una continua ricorsività descrittiva che chiamiamo “Io”, che ci permette di conservare la nostra coerenza operazionale linguistica e il nostro adattamento nel dominio del linguaggio” (Maturana e Varela, 1992).
La psicopatologia emerge allorché questa coerenza operazionale viene turbata e non è più possibile esperire come tale quella ricorsività descrittiva che ci fa esperire il nostro operare “nel mondo” come individualità che sono unità. In questo senso, mi riallaccio a quanto dice von Foerster circa la necessità che ha il nostro Sistema Nervoso di esperire sé stesso in termini di unità organizzata e stabile, postulando di conseguenza una realtà stabile e una propria coerenza descrittiva:
“Il sistema nervoso è organizzato (o organizza sé stesso) in modo da elaborare una realtà stabile. Questo postula l’ “autonomia”, cioè l’ “autoregolazione, per ogni organismo vivente”. Dal momento che la struttura semantica dei sostantivi con il prefisso “auto-” diventa più trasparente quando questo prefisso viene rimpiazzato da un sostantivo, “autonomia” diventa sinonimo di regolazione della regolazione. Questo precisamente fa il “toro” [la rappresentazione grafica che von Foerster fa del modus operandi del sistema nervoso N.d.R.]: regola la propria regolazione.
Significato
Potrebbe sembrare strano di questi tempi rivendicare autonomia, perché autonomia implica responsabilità: se io sono il solo a decidere come agire, allora sono responsabile della mia azione. Visto che la regola del gioco oggi più diffusa è quella di attribuire ad altri la responsabilità delle proprie azioni – il nome del gioco “eteronomia” – le mie argomentazioni, mi rendo conto, esprimono una rivendicazione impopolare” (von Foerster, 1987, p. 232).
Da questo punto di vista, ritengo la psicopatologia l’esito dell’impossibilità di mantenere un sentimento di coerenza operativa allorché operiamo come esseri umani che esperiscono il proprio vivere sé stessi nel mondo – e ciò implica l’impossibilità della propria autonomia e dunque l’impossibilità della propria responsabilità.
Ne consegue che la “psicoterapia” un processo di ridiscussione della propria “autonomia”, nel senso dato da von Foerster a tale termine.
Dal mio punto di vista, credo che il tema dell’esenzione di responsabilità, vale a dire il riferire alla propria costruzione del mondo ciò che emerge dalla propria costruzione del mondo, é un tema costante in tutte o gran parte delle concezioni psicoterapiche oggi esistenti.
Adler lo espresse chiaramente, ad esempio, in diversi suoi scritti: “Il programma di vita di un nevrotico richiede categoricamente l’esenzione da ogni responsabilità dei suoi eventuali fallimenti personali” (Adler, in Watzlawick et al., 1974, pag. 66): vista da tale angolazione, in realtà tutta la concezione psicoanalitica – ed il lavoro richiesto al “paziente” – sembrano concretizzarsi nell’idea che la salute psichica consti dell’arrivare ad accettare l’autonomia della propria costruzione di sé stessi e del mondo, e che la patologia insorga allorché non si può accettare come propri quei pensieri, emozioni, conflitti che sarebbero “dietro” ai propri comportamenti
Da questo punto di vista, i concetti di “proiezione”, “transfert”, “rimozione” altro non esprimono – a prescindere cioè dalle spiegazioni inerenti ai loro “perché” – una attribuzione all’ “altro” di descrizioni di propri significati.
D’altra parte, la stessa concezione di “Doppio Legame” – nel saggio “Verso una Teoria della Schizofrenia” (Bateson, 1972) descrive proprio questa dinamica:
“Il bambino dunque è punito se discrimina correttamente i messaggi della madre, ed è punito se li discrimina erroneamente: è preso in un doppio vincolo” (Bateson, 1972, pag. 260).
Il punto fondamentale della questione è che la madre punisce il bambino perché non vuole (o non può: siamo in quell’area in cui l’inconscio può essere descritto come “grazia di Dio”) ammettere la natura dei suoi sentimenti verso il bambino. I sentimenti di ostilità sono metacomunicati come se fossero di affettuosità e il bambino deve distorcere sistematicamente il significato di ciò che esperisce.
In altri termini, quella che definiamo “psicopatologia” appare essere sempre connessa, in tutte le spiegazioni che le varie teorie ne danno, appunto come l’impossibilità di esperire come proprio ciò che ad un altro livello viene definito come tale, e viceversa.
Da questo punto di vista, chiave di volta di ogni mio intervento psicoterapico, è la messa in scena di un quid che crei una riattribuzione alla “autonomia” del “paziente” di ciò che egli ad un livello distingue come tale e ad altro livello no più. In questo senso, non faccio alcuna differenza tra “presa di coscienza” e “cambiamento nella percezione del problema” (per me due mere differenze linguistiche), così come non la faccio fra l’ottenere una tal trasformazione attraverso un’esperienza psicologica stimolata da un “discorrere” in studio (o altrove), o – invece – dalla prescrizione (ed eventuale messa in atto) di un comportamento (che può esser prescritto per essere disatteso) o dalla prescrizione di una differente o aggiuntiva modalità interattiva.
Conseguentemente, quello che la psicoanalisi o le altre teorie di impostazione analitica spiegano come il risultato di un “conflitto inconscio”, nella mia spiegazione è il frutto di una incoerenza operativa, di un “confliggere” tra significati diversi posti in differenti domini descrittivi. Ne risulterebbe che, sviluppando appieno ogni significazione, e ogni significazione di significazione, il “paziente” si troverebbe nell’impossibilità o di esperire sé stesso come sé stesso, o – al contrario – non riconoscerebbe più come suo “esperire” il “reale”, il suo esperire il “reale”.
Faccio un esempio.
Sluzki e Veron, in un loro non recente articolo (Sluzki e Veron, 1971, in Sluzki e Ransom, 1979) tentando di descrivere il doppio legame come situazione patogena universale, indicano l’emergere della sindrome “fobica” come il risultato dell’esposizione ad un doppio messaggio riassumibile nella formula “Sii indipendente dipendendo da me” (Sluzki e Veron, 1971, in Sluzki e Ransom, 1979, pag. 308).
Il fobico, dunque, dovrebbe esperire sé stesso attraverso significati di sé stesso incompatibili tra loro. Ad un livello deve esperire la propria autonomia come tale, ad un altro per il suo opposto: in altri termini, deve percepire sé stesso come dipendente e indipendente al tempo stesso.
L’unica soluzione che ha è esperire come “fobia” il rapporto col “mondo” (con uno degli aspetti del mondo): se non avesse la “paura” in alternativa dovrebbe esperire che ciò che sente come “se stesso” è frutto di una incompatibile miscuglio di modi incoerenti di definire se stesso nella stessa esperienza.
In questo senso, la “fobia” è il risultato di un “conflitto” ed esprime anche un problema con le figure genitoriali, in virtù del fatto che la prima esperienza di sé la si fa attraverso l’esperienza con i propri genitori. Da questo punto di vista, a me appare che la stragrande maggioranza delle problematiche psicologiche che incontro è un problema di definizione della proprio autonomia come “propria” e come “autonomia”.
La mia spiegazione è che il legame con le figure genitoriali tende a rendere problematica la possibilità di esperire il proprio esperire sé stessi attraverso il proprio esperire sé stessi. Anche se quanto ho detto sino ad ora è dunque estremamente semplificato e semplicistico per motivi di spazio, rappresenta il nocciolo del mio spiegarmi la “psicopatologia” come comportamento che emerge nel dominio dell’interazione di un individuo con sé stesso, nella costruzione dunque dei proprio significati.
La “psicoterapia” diventa allora il percorso per lasciar emergere da una relazione nuovi riferimenti per il proprio costruire “realtà”.
E’ dunque un percorso di responsabilità – termine per me equivalente a quello di “presa di coscienza”.