LA PSICOTERAPIA COME ATTO ETICO IN UNA DIMENSIONE TRANSCONTESTUALE – Prima parte


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INTRODUZIONE

Questo articolo si occupa di psicoterapia da un punto di vista non ortodosso. Lo fa proponendo nuovi modelli psicoterapici individuali e di gruppo, basati su un’epistemologia della psicoterapia desunta dalla Biologia della Conoscenza.

In esso, dunque, descriverò dapprima l’utilizzo di un modello psicoterapico basato sull’impiego della videoregistrazione in un contesto gruppale.

Successivamente, prendendo spunto da tale descrizione, affronterò la prospettiva epistemologica nella quale colloco la mia concezione della “psicoterapia”, e delineerò quelli che mi sembrano i presupposti su cui la psicoterapia si fonda.

Sostanzialmente, spiegherò perché ritengo che la psicoterapia sia – come la definiva Bateson – una dimensione transcontestuale.

Dopo aver sviluppato tale punto, accennerò alle modalità con cui – operando attraverso tali premesse – si può impostare un setting individuale orientato sulle teorie costruttivistiche.

Premetto sin da adesso che altro assunto fondamentale di questo articolo è una spiegazione – differente da quella usuale – del ruolo delle teorie in “psicoterapia”.

La mia spiegazione è che le teorie psicoterapeutiche non servono a curare il “paziente”, ma ad orientare lo psicoterapeuta nel proprio interagire – questo è il punto – con la relazione che, ad un differente livello, egli ha col proprio “paziente”. Esse servono dunque a creare la dimensione transcontestuale perché mantengono uniti e al tempo stesso distinti i livelli della relazione attraverso cui lo psicoterapeuta opera.

Conseguentemente, ogni diversità relativa alle varie teorie psicoterapiche utilizzate, va spiegata – concordemente agli assunti della Biologia della Conoscenza – come il risultato dell’operare dell’osservatore in differenti domini di esistenza.

In questo senso, come si vedrà, anche l’inconscio è – e proprio da un punto di vista costruttivistico – un utile modello esplicativo: non a caso, veniva regolarmente utilizzato da Milton Erickson per spiegare il proprio operato. Ciò non ha impedito proprio a lui di diventare il riconosciuto caposcuola dei più accaniti detrattori dell’esistenza dell’inconscio

Non a caso, sul versante totalmente opposto – quello della psicoanalisi ortodossa – abbiamo Gill che conferma come ormai “…dovrebbe esser chiaro che è impossibile fare un’interpretazione che al tempo stesso non sia un suggerimento, oppure, messa in un altro modo, un’azione” (Gill, 1996, pag. 54)

La conclusione di questo articolo è che in psicoterapia, ciò che cura è l’Etica e non le teorie attraverso cui lo psicoterapeuta opera.
DESCRIZIONE DI UN UTILIZZO DELLA VIDEOREGISTRAZIONE IN IN CONTESTO PSICOTERAPEUTICO

VMT: le premesse cliniche e operative

Dal 1987 – insieme a vari collaboratori (*) – ho cominciato ad applicare in quello che ora è il Centro Studi Autopoiesi e Psicoterapia, una procedura psicoterapica abbastanza eterodossa per setting e modalità operative. Tale procedura è stata denominata: VMT – acronimo per Video Movie Therapy.

Al momento, tale prassi viene obbligatoriamente abbinata a sedute di psicoterapia individuale e applicata solo a casi che rientrino in un preciso profilo clinico-psicologico, e secondo modalità ben precise, che sono le seguenti:

– la richiesta di psicoterapia deve essere stata spontanea;

– il “paziente” deve già seguire e continuerà a seguire una psicoterapia individuale presso il Centro in questione

– vi deve essere una diagnosi di disturbo nevrotico o di personalità, assenza di patologie (o nuclei di patologie) cosiddette psicotiche, una piena capacità di intendere e/o volere;

– il “paziente” deve mostrare la tendenza ad esprimere le proprie problematiche attraverso “agiti” comportamentali o scelte esistenziali, ma con una buona capacità di riflettere sul significato degli stessi; possedere un buon grado di estroversione e di attitudine alla comunicazione, e buone capacità di autoironia

Tendenzialmente, le patologie che rispondono molto bene a tale prassi sono, nella nostra esperienza, tutte quelle attinenti alle sindromi di panico, fobico-ossessive, o di ansia, e gran parte delle situazioni depressive. Abbiamo poi ottenuto buoni o ottimi risultati anche con i disturbi di personalità, salvo che con quelli di tipo paranoideo o schizoidi (e con il Disturbo Passivo-Aggressivo di Personalità, ora depennato come tale dal DSM IV, e col quale la nostra prassi ci è sembrata addirittura abbastanza controproducente).

Per comodità espositiva, procederò ora discutendo la prassi che ho definito come VMT; successivamente, ne espliciterò le referenze epistemologiche e culturali; quindi, accennerò alle modalità della terapia individuale, la premessa indispensabile per accedere alla VMT. Preciso da adesso che solo una modesta percentuale di pazienti in terapia individuale viene invitata a seguire le sedute di VMT.

Il primo articolo sulla VMT come modello operativo psicoterapico è stato pubblicato nel 1990 (Giordano, 1990) ed era relativo appunto ad una casistica di tre anni. Sostanzialmente, tale articolo concerneva la descrizione di un utilizzo creativo della videoregistrazione in un contesto definibile come autoreferenziale e come psicoterapico: una revisione della bibliografia internazionale dell’epoca e degli anni successivi (AA.VVV, 1992; De Gregorio, 1994; Gemma, 1998) accertava – in occasione di due tesi di laurea concernenti la VMT presentate alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Roma – che si trattava del primo utilizzo in tal senso della videoregistrazione.

In effetti, la videoregistrazione ha sempre lambito la prassi della psicoterapia, essenzialmente per le sue capacità didascaliche o illustrative; solo sporadicamente è stato tentato un utilizzo terapeutico delle sue possibilità espressive. Al proposito, vi è un modello psicoterapeutico di un regista-psicoterapeuta finlandese da segnalare, che utilizza però, come momento psicoterapeutico, la visione di un film.

Le possibilità implicite nella videoregistrazione sono state difatti sinora sfruttate soprattutto a fini di supervisione didattica (Watzlawick, 1978), (Haley, 1985) e di autosupervisione (Grasso e Cordella, 1989) mentre qualche terapeuta della famiglia da tempo mostra occasionalmente ai propri pazienti le registrazioni di precedenti sedute. Moreno (Moreno, 1985) ha proposto l’utilizzo del mezzo televisivo applicato allo psicodramma, ipotizzando per esso addirittura – e forse con una traccia di megalomania – sedute di psicoterapia in “mondovisione”. Similmente, egli preconizzò – sia pure con modalità del tutto diverse da quelle utilizzate nella VMT – l’uso del cinema come via terapeutica (un cinema che avrebbe di fondo dovuto riproporre il setting dello psicodramma). Si ricorda qui che fra i vari filmati successivamente prodotti in tema di “Psicodramma” ve ne fu anche uno di Rossellini, nel 1956, per la televisione francese. D’altra parte, il primo esempio di film psicodrammatico fu realizzato per la prima volta da Moreno nel 1933 ma non con una finalità terapeutica, bensì come verifica e addestramento di alcune ragazze, e dunque in sede di formazione e valutazione professionale. Successivamente, specie negli SU e in Francia, la prassi del cinema come terapia fu molto utilizzata da Moreno e dai suoi collaboratori, fino a tutti gli anni sessanta, e probabilmente fino alla morte di Moreno, che avvenne nel 1974. A quanto ne so, l’ultimo esperimento di psicodramma in televisione fu condotto da Ottavio Rosati per la TV italiana, nel 1991. Durante un colloquio personale, mi disse di aver impiegato un anno a definire il setting dell’esperienza, dal momento che la considerava a tutti gli effetti una vera e propria psicoterapia con ripresa televisiva.

Di fondo, se da questo punto di vista l’utilizzo che la VMT fa della videoregistrazione si inserisce nella tradizione dello psicodramma (come detto, il primo film terapeutico o basato sullo psicodramma, data ormai da oltre sessantacinque anni), da un altro punto di vista esso si integra abbastanza bene nella tradizioni delle c.d. “terapie creative” (arte-, danza-, musico- terapia, ecc.) per quel che concerne la finalità terapeutica riconosciuta agli aspetti creativi del mezzo artistico-espressivo utilizzato (Del Corno e Lang, 1989). Ricordo che negli Stati Uniti l’Art Therapy è molto praticata, e comprende proposte quali la “Poetry Therapy”, la “Drama Therapy”, la “Writing Therapy”, la “Photo Therapy”, e via di seguito. Su Internet, esistono una o due mailing list in lingua inglese di Art Therapy.

Come detto, in Finlandia vi è un modello psicoterapeutico – proposto dal regista e psicoterapeuta Pekka Mäkipää che ha cominciato a lavorare in tal senso nel 1978 – che prevede l’uso del “movie” come strumento terapeutico. Tale utilizzo non è però nella creazione, ma nella visione di film già prodotti e normalmente circolanti nelle sale cinematografiche, o anche nell’interazione con video-consolle interattive (come la Play Station o la Nintendo); recentemente Pekka Mäkipää ha introdotto la possibilità di utilizzare Home-video prodotti dai pazienti, privi però di intrecci narrativi.
IL SET / SETTING DELLA VMT

Il setting

La VMT può essere descritta come una terapia attuata in un gruppo (cinque-otto persone): gli incontri sono settimanali e hanno una durata di tre ore e mezza circa.

Scopo del gruppo è la creazione di un videofilm della durata di 90′-120′ circa, o (a seconda delle problematiche presentate dai pazienti) di una miniserie di videofilm (due o tre puntate da 60′ l’una).

Nessuna attenzione viene data alle dinamiche gruppali in senso stretto ma è implicito che ogni intervento dello psicoterapeuta è un intervento a fini psicoterapeutici.

Compito del gruppo è procedere dunque alla stesura del soggetto del futuro video, alla sceneggiatura del materiale da girare, alla successiva messa in scena, e al montaggio finale del materiale registrato (che resta di proprietà dello psicoterapeuta e viene trattato come una normale documentazione clinica. Se qualche “paziente” ne richiede una copia, deve firmare un impegno a non darlo in visione ad alcuno).

Un aspetto molto caratteristico della partecipazione alla VMT è che il relativo pagamento delle sedute di VMT è simbolico; i partecipanti si impegnano però a rifondere in solido eventuali danni avutisi al materiale tecnico utilizzato. Il senso di tali regole viene precisato prima dell’inizio dei gruppi: la VMT è un’esperienza in cui la condivisione degli impegni e delle responsabilità è uno dei fini espliciti.

Per ovviare ai rischi impliciti in tale gratuità, vengono introdotti alcuni correttivi: a partire dalla seconda assenza dai gruppi, è previsto il pagamento è di una cifra identica a quella dell’onorario di una seduta individuale. La stessa formula viene applicata in caso di ritardi eccessivi. Tali regole vengono applicate con molta precisione, perché il contesto della VMT – richiamando molto facilmente uno spazio molto ludico e divertente – rischia di trasformarsi in una esperienza caoticamente improduttiva se priva di regole che connotino il fine “terapeutico” e la natura professionale del suo svolgersi.

Nel caso un partecipante voglia interrompere la partecipazione, è possibile (come gli è stato preannunciato all’inizio dei gruppi) che debba por fine anche alla terapia individuale. Ciò è avvenuto raramente.

Ogni ciclo di VMT inizia dunque con una prima serie di riunioni, durante le quali si discutono i vari personaggi e si approntano i modi del loro ingresso nella storia: si elabora cioè come e perché per ciascuno di loro inizia la storia narrata.

Successivamente, si passa alla fase in cui viene creata la storia e sceneggiati i vari risvolti. In tale fase si lavora a sedute alterne, ma è determinante che nessun partecipante al gruppo può conoscere anticipatamente l’evoluzione della storia. Di prefissato vi sono esclusivamente i personaggi e, di volta in volta, vengono creati gli sviluppi narrativi cui le loro interazioni daranno luogo.

Ciò comporta tempi molto lunghi per la creazione del prodotto finale, ed è di fatto quel che differenzia la produzione di un video della VMT dalla creazione di un video destinato ad un uso prettamente artistico e/o commerciale. Ovviamente, ciò comporta anche numerosi disarmonie stilistiche, e non rari irrisolvibili problemi di montaggio, ma è appunto essenziale che la storia si costruisca attraverso l’evoluzione del gruppo.

Durante ogni incontro destinato alla creazione della trama, vengono ideati i singoli riscontri narrativi, scritte e sceneggiate le arie scene che lo compongono, approntati i dialoghi e anticipate le varie inquadrature.

Nell’incontro successivo, si mette in scena, registrandolo sul nastro, quanto è stato elaborato nella seduta precedente. Terminata la messa in scena dei singoli sviluppi narrativi, si torna a inventare nuove evoluzioni della trama.

A volte la scrittura di alcune scene può prendere varie sedute, così come può esser necessario “girare” varie scene per più incontri di seguito.

Nella fase di messa in scena, il regista è lo psicoterapeuta: la sua opera consta in realtà di una serie di interventi psicoterapici fondati sulla idea di “descrivere” al paziente il sé stesso che deve mettere in scena. Il “ciak” è considerato “buono” quando incontra il pieno apprezzamento di tutto il gruppo: per quanto riguarda la recitazione, la regola da seguire è quella di evitare ogni contatto fisico violento o erotico. Al termine di ogni incontro, si stabilisce se nella seduta successiva vi saranno da sviluppare o terminare le riprese in corso, o se si passerà a nuovi sviluppi della trama.

Se si debbono ambientare nuove riprese nei luoghi di lavoro o domicilio dei singoli interpreti, ciò (dietro ovvio consenso) potrà costituire una momentanea ammissione di eventuali familiari o conoscenti al setting/set, anche questo utilizzabile a fini terapeutici.

Quando la storia volge al finire, il terapista provvede ad un montaggio di massima del materiale girato, e verifica se vi sia l’esigenza filmica e narrativa di aggiungere determinati raccordi fra le scene, o di modificare qualcosa. Il materiale montato viene di norma visionato da tutto il gruppo, e si stabilisce se e quali cambi apportare. Se non vi sono da girare altre scene, si passa al montaggio definitivo. Il gruppo partecipa, sia pure non obbligatoriamente, alle operazioni editing, in special modo alla preparazione del “progetto” del file finale. Ogni software di editing video prevede infatti una prima fase di progettazione dell’output definitivo: in questa fase si procede alla scelta delle inquadrature adeguate, si effettuano i tagli ritenuti opportuni, e si inseriscono il sonoro (eventualmente mixando dunque dialoghi con le eventuali musiche di fondo), i vari effetti speciali da aggiungere al materiale girato, e i titoli. Da un certo punto di vista – come ben sa chiunque si occupi di video – in questo momento avviene una seconda fase creativa.

Ogni gruppo termina poi con una visione del prodotto finito e con una discussione relativa ai suoi contenuti. La discussione può anche prendere diverse sedute, ma in tal caso gli incontri di gruppo hanno una durata prefissata di un’ora e mezza.

Qualche nota tecnica: il filmato viene girato in formato HI 8, con un set completo di spot professionali per le luci; sono peraltro disponibili anche una videocamera VHS Panasonic, e un Mixer video Panasonic, ma raramente vengono utilizzati: di norma, si cerca infatti di non appesantire il set/setting con un eccesso di materiale o con procedure faticose: la messa in opera del set, fa parte dei compiti dei partecipanti ad ogni seduta, ma è bene non sia eccessivamente laboriosa.

L’editing del materiale girato è di tipo non lineare, e avviene dunque su PC. La macchina che lo effettua è un Pentium II da 450 Mhz, corredata di due hard disk, rispettivamente di 10 e 8 Giga, una scheda video ATI Rage 128 con 16 Mega di Ram, e una memoria di 128 MB in formato DIMM P 100. La scheda di acquisizione video è una AV MASTER; come software per l’editing sono utilizzati l’U LEAD STUDIO (5.1) e il Corel Lumiere, che permettono di produrre effetti grafici e titolazioni anche in 3D. Una preview in formato ridotto – dunque non riversata su nastro – può essere effettuata, specie prima di decidere se vi devono essere scene aggiuntive, attraverso la creazione di file in formato Real Video (mediante l’utilizzo di Real Publisher). Questo perché la creazione di file video formato PAL, il formato che dovrà essere utilizzato per permettere un riversamento su nastro, richiede – anche con un processore di 450 Mhz – non poco tempo (pochi minuti di riprese corrispondono a file di centinaia di MB). Di contro, una volta che il progetto di editing è stato salvato, esso può essere indifferentemente utilizzato e riutilizzato per creare di volta in volta video di formati differenti. Tutto l’acquisto del materiale (negli anni precedenti vi erano altre apparecchiature, compreso un mixer video) è completamente autofinanziato. Incidentalmente, preciso dunque che l’unico finanziamento finora ricevuto è stato ad opera di un corso di Art Therapy che si svolgeva negli S.U. e che stanziò una certa quota affinché la Direttrice del Corso venisse a osservare un setting di VMT, di cui avevano letto per un articolo comparso sul WEB. Successivamente, sono state richieste conferenze sia negli S.U., sia in Canada, sia in America Latina.
La storia e i personaggi da narrare

Ogni video prodotto dovrà contenere una storia basata sempre sulle stesse modalità e sulla stessa premessa: ogni partecipante deve interpretare ironicamente sé stesso e la storia narrata dovrà dunque essere la storia del gruppo che lo produce.

Ogni video dovrà avere inoltre una chiave narrativa fortemente ironica o comica, e dunque basarsi su precisi “riferimenti” filmografici e cinematografici: più precisamente, ogni partecipante – psicoterapeuta compreso – impersonerà sé stesso in un video ispirato alle classiche “commedie all’italiana” degli anni ’50, popolato dunque da personaggi con caratteristiche abbastanza precise, riassumibili nelle note macchiette alla “Alberto Sordi” o “Totò” (o ad interpreti anche più contemporanei). Attraverso la “riscrittura” di sé stesso suggerita dal terapeuta/regista, dunque, ogni interprete impersonerà la propria ironica e simpatica – più o meno benevola – caricatura.

Punto essenziale di ogni gruppo è che vi sono pochissimi dati prestabiliti all’inizio di ogni gruppo. Questi dati sono: le caratteristiche dei personaggi rappresentati, la chiave narrativa (ironico-comica) della storia, la regolarità degli incontri. Anche il titolo di ogni video è sempre prestabilito: “Siamo tutti pissicoterapeuti”, seguito dal numero d’ordine (a volutamente ironica imitazione delle grandi serie cinematografiche).

Come già detto, ogni partecipante, così come lo psicoterapeuta, interpreta sé stesso nella storia narrata. Ogni personaggio avrà dunque tendenzialmente vita professionale, affettiva e sociale, nomi e cognomi, identici a quelli del suo interprete; ne differirà non per la “realtà” delle problematiche psicologiche che presenta, ma per il significato che esse assumono nel contesto esistenziale del personaggio narrato. Come accennato, tutto ciò ricondurrà a personaggi e storie molto ironici, e a momenti dai tratti fortemente caricaturali.

Il setting della VMT come set di se stessi

Nucleo principale di questa esperienza è, come ben si comprende, la riscrittura dell’interprete nel “personaggio” di sé stesso, e dunque la relativa riscrittura che così viene data dei problemi psicologici ed esistenziali dei partecipanti.

Tale “riscrittura” viene di fatto proposta dallo psicoterapeuta a ciascun singolo partecipante durante i colloqui individuali, e di fatto concertata da entrambi sino a che entrambi non sono d’accordo sul personaggio da portare in scena.

Occorre notare che raramente tale “riscrittura”, e dunque l’idea di dover interpretare la propria “caricatura” in modo ironico e paradossale, ha generato “resistenze” o grandi perplessità. Vuoi la selezione “clinica” che viene operata per così dire in “entrata”, vuoi un certo clima che accompagna comunque le sedute individuali, quasi nessuno ha mai vissuto persecutoriamente – in dodici anni circa di esperienza – l’idea di prendersi in giro in un video del genere. Solo un paio di partecipanti (su un centinaio circa), “etichettabili” (le virgolette sono appunto d’obbligo) come Disturbi di Personalità Passivo-Aggressiva, ci fecero sapere – a incontri e riprese terminati – di essersi sentiti “umiliati” a dover impersonare in tal modo sé stessi. Furono proprio tali esperienze ad indurre la consapevolezza di creare limiti e definizioni ben precise all’ingresso, per così dire, di un’esperienza molto atipica e sicuramente caratterizzata da quella che in una prospettiva classica o ortodossa sarebbe una insostenibile confusione di ruoli e di “agiti”.

Ciò non significa ovviamente che non vi possano essere problemi nella creazione di simili video, basati appunto su personaggi così creati. Quello che però è fondamentale è la capacità dello psicoterapeuta (attualmente siamo alla “seconda generazione”) di gestire il rapporto con il singolo partecipante e con il gruppo in modo da dare una soluzione sempre creativa ai problemi che si presentano nel set/setting.

Come accennato precedentemente, dunque, nocciolo principale dell’esperienza è che tutto ciò che nella terapia “classica” viene definito “patologico”, “psichiatrico”, “clinico”, diverrà nella VMT occasione di humor e ironia. Come meglio si vedrà in seguito, analoga sorte segue la figura dello “psicoterapeuta”, trasformato – utilizzando le stesse “chiavi” di riscrittura che vengono utilizzate per i pazienti – nella caricatura di sé stesso. Va precisato che il personaggio dello “psicoterapeuta” ha sempre le stesse caratteristiche: descrivendolo ironicamente posiamo dire che egli ben dimostra la veridicità di quell’aforisma di Kraus, secondo cui la psicoanalisi (ma anche tutta la psicoterapia) è la malattia di cui dovrebbe essere la cura (Kraus, 1972).

La riscrittura della personalità e – soprattutto – delle problematiche “psicopatologiche” dei pazienti avviene seguendo l’assunto che tutto ciò che nella vita del paziente sono descritti e considerati un “sintomo” o una “situazione” “spontanei” e/o “indesiderati”, nella vita del “personaggio” è il frutto di una scelta (più o meno consapevole) precisa, ed ha un doppio fine: quello di esonerarlo dalla responsabilità di sé stesso – o meglio, seguendo un tipico assunto costruttivistico – il fine di utilizzare l’oggettività come convalida della propria visione di sé stesso e del mondo.

Ovviamente, data la chiave ironica della narrazione, tutto ciò emerge nei video come frutto di una innata attitudine “truffaldina” dei personaggi: un’aria da furbo sempre votato alla sfortuna, da “bullo” facilmente messo a tacere, da esagitata di questa o quella attitudine, accompagna costantemente ogni personaggio dei video, capace solo di cacciarsi nei guai grazie all’irresistibile tentazione di manipolare e mistificare la propria e l’altrui realtà attraverso le evidenze della sua “oggettivazione” di sé stesso e del mondo.

I motivi che nei video spingono ogni “paziente” a consultare un siffatto “psicoterapeuta” sono gli stessi che hanno portato alla richiesta di terapia nella “realtà”, e sono dunque il disegno anche esso ironico dell’impasse nel quale si è impigliato il relativo interprete: un matrimonio deludente o una scelta professionale infelici, un “sintomo” psicopatologico o i suoi effetti nel contesto sociale e affettivo del “”paziente” “, che nel film saranno appunto ridescritti come una scelta più o meno consapevolmente operata in base ad una propria furbizia personale e fonte a loro volta di non poche sventure, disagi, ulteriori problematiche psicopatologiche.

Il punto di partenza di ogni storia è dunque sempre lo stesso: in un modo o nell’altro ogni personaggio della storia è un “paziente” che, all’inizio della vicenda, si ritrova per un motivo o per l’altro nello studio di uno psicoterapeuta che, sin dalle prime battute, si preannuncia – specie grazie agli aspetti non verbali della sua comunicazione – del tutto simile, quanto ad attitudini etiche, ai suoi pazienti.
Autoreferenzialità e discorso sulla psicoterapia come psicoterapia

Come detto, la videoregistrazione è, nella VMT, il mezzo utilizzato per far diventare l’interprete il personaggio di sé stesso

Da questo punto di vista, il modello che sto descrivendo appartiene al novero delle psicoterapie di tipo narrativo.

Poiché poi la sua prassi tende a rendere sperimentabile (o “percepibile”) la natura autoassertiva delle categorizzazioni umane, e la loro capacità di generare irrisolvibili paradossi pragmatici in quanto fondate sui criteri di “vero/falso” della logica aristotelica, e poiché tende a questo obbiettivo attraverso la narrazione di un gruppo che racconta sé stesso, si tratta di una esperienza definibile come autoreferenziale.

L’ipotesi psicoterapeutica che sta alla base di tale prassi e che un set/setting così concepito tende ad evidenziare le discrepanze che emergono nei partecipanti allorché confrontano la propria esperienza di sé stessi in un simile spazio interattivo – basato sull’esperire in prima persona l’indefinibilità tra differenza e identità esistenti fra “creazione” e “psicoterapia”, “personaggio” e “paziente”, “set” e “setting” , “narrazione” e “storia clinica”- con quella che fanno e descrivono nella vita di tutti i giorni.

L’impossibilità di decifrare la definizione “esatta”, rende di fatto la “psicoterapia” la rappresentazione di se stessa, e i pazienti coloro che sono attori di sé stessi e inventano la propria storia di pazienti. Secondo l’ipotesi operativa sottesa, ciò attiva una chiave di trasformazione del proprio bisogno di distinguere fra “percezione” ed “illusione” – un dilemma tipico della logica aristotelica, superato appunto dal pensiero “costruttivista”, e permette di creare nuove regole per la propria realtà, esperendo come essa emerga dalla relazione con sé stessi e gli altri.

In questa logica, dunque, la videoregistrazione permette di registrare il momento in cui le significazioni che vengono date a sé stessi, al proprio contesto, alle proprie storie, sono il momento di una creazione sempre in atto in cui le spiegazioni che si danno di quanto si è, e di quanto accade, sono il risultato di un punteggiare attraverso il proprio operare nel linguaggio, le proprie esperienze interne.

Ciò è abbastanza evidente allorché la possibilità di riscrivere i nessi causali della “realtà” viene, nel “set”/”setting” della VMT meglio esplicitata allorchè si procede, durante la “fase di elaborazione” di ciascuna seduta, alla creazione dei nuovi sviluppi della trama: lavorando sulla possibilità dei “personaggi” di percepire e significare i loro problemi e le situazioni in termini diversi da come li percepiscono e significano in quel momento della storia, si evidenziano sia la “circolarità” della realtà umana, sia la possibilità di generare “realtà” sempre diverse partendo da spiegazioni porte da domini di “esistenza” sempre differenti. E’ qui che emerge tangibilmente, nel gruppo, la consapevolezza della tendenza degli “eventi” ad autodeterminarsi perché in realtà sono frutto del significato che se ne dà.

E’ per tale motivo che, nelle riunioni della VMT, la soluzione narrativa e filmica che di volta in volta viene prescelta è quella più capace di trasmettere i risvolti grotteschi dell’incapacità dei personaggi di modificare le proprie prospettive, evidenziando quale carica comica è innescata nella attitudine umana di considerare le proprie premesse come le uniche possibili – salvo poi dolersi quando le si vede concretizzarsi nelle profezie lasciate avverare.

Da questo punto di vista, è evidente il riferimento della V.M.T. ai contributi di H. Maturana e, appunto, al Costruttivismo.
Lo “pissicoterapeuta” della VMT

Una evidente esplicitazione di tale prospettiva – e le deduzioni che se ne possono fare circa la natura del processo psicoterapeutico in quanto tale – emerge, nell’esperienza della VMT, dalle connotazioni che assume nelle varie vicende, il personaggio (fisso) dello psicoterapeuta interpretato dallo psicoterapeuta stesso che conduce il gruppo, e che ogni differente terapeuta deve interpretare a modo proprio, ma sempre tenendo conto delle caratteristiche di fondo con cui deve essere “scritto” il personaggio.

Implicitamente, occorre dunque premettere che le caratteristiche di tale personaggio implicano ed esprimono uno degli assunti epistemologici della psicoterapia dal punto di vista di chi conduce un gruppo di VMT: la psicoterapia non può non consistere di un discutere – in un modo o nell’altro – anche sulle premesse delle asserzioni che in nome della psicoterapia vengono fatte. Tale assunto, che in sé appare abbastanza impegnativo, implica di fatto che la psicoterapia è un processo che viene di volta in volta costruito sulla base della relazione di cui si occupa. Le spiegazioni della psicoterapia sono dunque, di volta in volta, spiegazioni adeguate al contesto della relazione in cui emergono e presuppongono essa come unico punto di riferimento per la loro verifica.

Ritornando dunque al personaggio dello “psicoterapeuta”, esso avrà caratteristiche simili a quelle degli altri personaggi: sarà dunque uno psicoterapeuta imbroglione, laureatosi quasi per caso, che crede di aver trovato nella psicoterapia l’evidente possibilità di campare di chiacchiere e sbarcare un cospicuo lunario riempiendo i pazienti pazienti capitatigli a tiro con le proprie teorie, inventate al momento.

Da un punto di vista “scientifico”, dunque, le sue “terapie” saranno “false” terapie e i suoi modi di fare quelli del simpatico imbroglione: di fatto, quello che lo legherà ai suoi pazienti sarà un rapporto di reciproca collusione, una collusione relativa ai vantaggi che ognuno vende all’altro e che si basa appunto sul potere legittimante di una scienza che opera in nome dell’obiettività.

Nelle vicende narrate, dunque, ogni “paziente” tenta di ottenere dallo “psicoterapeuta” – in cambio dell’onorario che gli versa e che lo legittima appunto come “psicoterapeuta” – la ratifica della “scienza” ai vantaggi ottenuti dal proprio stile di vita. Il primo dei quali vantaggi è di non dover mai mettere in discussione le proprie premesse, ponendole invece come punto di riferimento (sotto forma di sintomo) nella vita con gli altri.

Da questo punto di vista, dunque, nelle storie narrate la diagnosi di “malattia mentale” diviene un momento di oggettivazione della propria irresponsabilità, costretta ad oggettivare nella “sofferenza” la propria pretesa di continuare a non mettere in discussione i propri presupposti; nella stessa prospettiva, la psicoterapia diviene – proprio in virtù della legittimazione che offre convalidando le proprie asserzioni attraverso la oggettività – il sistema per continuare ad essere la persona che non si vorrebbe essere. In realtà, ogni storia narrata prevede tuttavia che l’improvvido analista riesca – proprio suo malgrado e con suo disappunto – a risolvere velocemente ogni caso che gli si presenti, proprio grazie ai cambiamenti di contesto generati dai suoi tentativi di imbrogliare tutti.

Come si può intuire, la figura di un tale “psicoterapeuta” assolve a funzioni narrative – e dunque “psicoterapeutiche”, – ben precise: soprattutto perché in questa logica la consapevolezza della narrazione è psicoterapia quanto la psicoterapia è narrazione della consapevolezza.

Per cominciare, è evidente che una più superficiale interpretazione di tali caratteristiche rimanda ad una visione che riassume quanto di più negativo una certa critica “popolare” attribuisce agli “psicoterapeuti”, attribuendo loro, in sostanza quella che in termini jungiani è l’Ombra dello psicoterapeuta, vale a dire la figura del Ciarlatano e del Falso Profeta (Guggenbül-Craig, 1987) che utilizza le sue capacità di contatto con il mondo psichico per sfruttare a proprio vantaggio le problematiche altrui. Secondo Guggenbül-Craig, uno jungiano svizzero che ha particolarmente studiato l’argomento, tale “archetipo” costella la vita di qualunque psicoterapeuta – e di chiunque operi in professioni a sfondo terapeutico – e lo spinge ad utilizzare appunto le proprie capacità sanatrici per manipolare a proprio vantaggio sia i propri pazienti – ben presto trasformati in adepti di una nuova e illuminata fede psicoterapeutica – sia i propri familiari e amici.

E’ interessante notare, nel pensiero di Guggenbül-Craig, sia che egli non distingue molto definitamente tra le varie professioni “a sfondo terapeutico” (fra cui annovera anche gli assistenti sociali, ad esempio), sia che descrive molto bene, e molto lucidamente, come il fenomeno della frammentazione del concetto e della prassi della “psicoterapia” in sempre nuove teorie, scuole, prassi, vada in sostanza attribuito alla attitudine profetica di ogni bravo analista. Da questo punto di vista, è dunque emblematico il titolo che ogni video ha, “Siamo tutti pissicoterapeuti”, nel quale il voluto errore ortografico esprime il degrado culturale da cui emerge un simile contesto.

Un altro aspetto del personaggio dello “psicoterapeuta” é che questi nelle storie narrate esplica, grottescamente, come la relazione analitica sia essenzialmente basata sulla costante posizione “down” del “paziente” rispetto all’analista, in un contesto che invece definisce simmetrica la loro relazione (Haley, 1967), e di come quella che Popper (Popper, 1962) definisce l’indecidibilità degli assiomi psicoanalitici, permetta a chi li gestisce di rietichettare qualunque comportamento in funzione del mantenimento del controllo della relazione.

Di fatto, nelle storie narrate, tutta l’inventiva dello psicoterapeuta è votata ad inventare e a poi spacciare per “scienza” le teorie più fasulle, da lui inventate al momento, trovando sempre quella che, gratificando il “paziente” , lo invoglia a trovare gratificante il proprio ruolo di “malato”.

In questo senso, il personaggio in questione offre lo spunto per creare dimensioni e spunti narrativi (che, in virtù della sovrapposizione fra set e setting sono sempre molto vicini a momenti di vita “reale” dei partecipanti al gruppo ) e nei quali:

– si evidenziano la seduttività del processo psicoterapeutico e l’ “obbiettività” con cui il processo psicoterapico opera nel creare le proprie autolegittimazioni,

– si possono “percepire” le capacità autoconvalidanti delle categorizzazioni umane e la seduttività delle relazioni collusive che servono ad accreditarle,

– di come tutto ciò si fondi sulla legittimazione in termini di “vero/falso” delle proprie (e altrui) categorie interpretative.

Da tal punto di vista, il confronto si allarga all’utilizzo della psicoterapia quale sistema interpretativo di se stessi e del mondo, e a come le sue capacità autolegittimanti generino il rischio di identificare il proprio cambiamento con la verbalizzazione di una teoria e la suddetta teoria con le proprie ragioni.

Da tale punto di vista, la critica volutamente plateale che il personaggio dello “psicoterapeuta” ispira nei confronti della psicoterapia tende quindi a suscitare un ulteriore confronto con i propri temi proiettivi: un personaggio del genere ben evidenzia, infatti, come sia facile rimuovere il proprio aspetto truffaldino condannandolo in quella che appare esplicita “ciarlataneria” altrui. Si può in tal modo elaborare anche il tema delle asserzioni circa i conflitti relazionali, vale a dire il problema di quanto l’altro ci appare oggettivamente descritto dal nostro descriverlo “oggettivamente”, conflitti appunto nei quali la capacità di verificare appunto come “oggettivi” i propri assunti ( magari legittimandoli con la propria teoria psicologica) è funzionale al tentativo di controllo della relazione: in definitiva, abbiamo volutamente fatto sì che tal personaggio dello “psicoterapeuta/imbroglione” permettesse ai partecipanti di lavorare sull’assunto che le categorizzazioni umane sono sempre funzionali -in un senso o nell’altro- a chi le utilizza, dal momento che permettono di sostituire la propria responsabilità con l’obiettività quale metodo di convalida delle proprie asserzioni (e dei propri comportamenti).

In altri termini, scopo di un set/setting così costruito e dell’interazione fra “personaggi” e “interpreti” così definiti (e ridefiniti) è quella di stimolare un’esperienza che, in un linguaggio “aristotelico”, può essere definito come un loop “percettivo” basato sulla impossibilità di distinguere tra le “identità” e le “differenze” esistenti o “descrivibili” fra “set” e “setting”, “personaggi” e “pazienti”, “terapista” e “terapista”, “narrazione” e “storia clinica”.
La conoscenza come autoreferenzialità

Una simile esperienza – che alcuni, specie durante i primi incontri descrivono come vicina a uno stato oniroide, soprattutto nel momento in cui si interpreta sé stessi come se si fosse il personaggio ironico creato da sé stessi – è tesa proprio a consapevolizzare chi vi partecipa della propria impossibilità a spiegare le proprie percezioni di sé stesso, del proprio agire, della costruzione che fà di sé e del proprio agire nel qui ed ora – se non in termini autoreferenziali, dunque con un processo di cognizione che opera mediante “descrizioni” e non mediante “percezioni”, ed emerge sempre dalle caratteristiche e dalle premesse dell’osservatore.

Nei gruppi di VMT si cerca cioè di rendere esperibile come l’atto conoscitivo sia un atto di distinzione, e che “l’oggetto” della conoscenza emerge come tale con un processo che lo definisce tale a posteriori, e che arriva a far sì che una volta che sia stato costruito un dominio di realtà, l’essere umano – in qualità di osservatore – può trattare gli oggetti che lo costituiscono come indipendenti dalle operazioni di distinzione che li generano” (Maturana, 1993).

Sempre operando in questa logica, un set/setting così costruito tende implicitamente a far esperire a chi vi partecipa non solo come la differenza fra “percezione” e “illusione” sia una spiegazione data a posteriori dall’osservatore che opera nel linguaggio, ma anche come ciò che definiamo la “realtà”, il “Sé”, l’ “autocoscienza” esistono nel linguaggio come spiegazione dell’esperienza immediata dell’osservatore, e presuppongono sempre le premesse con cui vengono “oggettivate” da questi.

Dice al proposito Maturana: “Il sè nasce linguisticamente nella ricorsività linguistica che costruisce l’osservatore come entità spiegandone il funzionamento entro un dominio di distinzioni consensuali. L’autocoscienza nasce linguistamente nella ricorsività linguistica che costruisce la distinzione del sè come entità quando spiega il funzionamento dell’osservatore che, in un dominio consensuale di distinzioni, distingue il se da altre entità. Dunque la realtà sorge insieme con l’autocoscienza linguisticamente come spiegazione della distinzione tra sè e non-sè nella prassi dell’osservatore. Il sè, l’autocoscienza e la realtà esistono nel linguaggio come spiegazione dell’esperienza immediata dell’osservatore. Per meglio dire, l’osservatore come essere umano immerso nel linguaggio viene prima rispetto al sè e all’autocoscienza, che nascono quando egli opera nel nel linguaggio, spiegando la sua prassi come tale. Che le entità realizzate nelle nostre spiegazioni debbano avere una presenza inevitabile nel nostro dominio d’esistenza è dovuto al fatto che noi ci realizziamo come osservatori nel distinguerle nello spazio delle coerenze operative che esse definiscono mentre le distinguiamo. Nella nostra prassi noi non passiamo attraverso un muro, perchè esistiamo come sistemi viventi nello stesso dominio di coerenze operative in cui un muro esiste come entità molecolare, e un muro viene distinto come entità composita nello spazio molecolare proprio come quell’entità attraverso la quale noi come entità molecolari non possiamo passare. L’osservatore viene prima, non l’oggetto. L’osservare è dato nella prassi del vivere nel linguaggio, e noi ci troviamo già immersi in esso quando cominciamo a rifletterci sopra. La materia, l’energia, le idee, i concetti, la mente, lo spirito, dio ecc., sono proposte esplicative della prassi in cui vive l’osservatore.” (Maturana, 1993, pag 122).

Consequenzialmente il set/setting della VMT tende a far esperire come quello che definiamo “mondo psichico” esista in quanto tale solo nello spazio delle nostre relazioni, che la nostra attività linguistica non rimanda appunto ad esperienze oggettive ed oggettivabili – ma a momenti della nostra prassi esperienziale – e che la sua funzione è una funzione autorientante alll’interno dei propri domini cognitivi (Maturana e Varela, 1985): come dice von Foerster, quell’illusione chiamata “realtà” emerge come “percezione” allorché scambiamo appunto l’aspetto connotativo del linguaggio con quello denotativo (Ceruti, in Watzlawick e Krieg, 1998).

Ne consegue che anche l’esperienza che si fa del proprio “Io”, che nel set/setting della VMT, è al tempo stesso il “personaggio” di sé stesso quanto l’attore che lo crea per impersonarlo – va incontro ad una diversa consapevolizzazione di sé. Dunque, lo scopo di un tale set/setting è quello di consapevolizzare come quella che percepiamo (e spieghiamo) come “psicopatologia” appartiene appunto ai processi con cui questa identità viene costruita: la “cura” è dunque nel generare nuove regole per costruirla.

Date queste premesse, è chiaro che quella che definiamo psicoterapia avrà caratteristiche ben peculiari, che discendono e fanno direttamente alla prospettiva epistemologica accennata in questa esposizione del set/setting della VMT.
Una breve sintesi sulla VMT

Dai risultati che con la VMT mi sembra di aver raccolto, emerge una mia constatazione: se questi risultati esistono (come credo che esistano) non credo vadano attribuiti alla validità della VMT come “sistema” utilizzato.

Di fatto, ritengo che gli stessi sarebbero stati ottenibili con qualsiasi psicoterapia, utilizzata – e questo è il punto – da uno psicoterapeuta attento a declinare eticamente la propria teoria di riferimento, cioè come spazio di costruzione delle regole di un gioco intessuto entro una relazione affettivamente positiva, indirizzata al benessere dell’altro, fondata sul desiderio di legittimare l’altro come altro.

E’ evidente infatti che un set/setting come quello della VMT – nel quale ognuno deve prendere in giro sé stesso – può essere costruito come positivo e “terapeutico” (e non fissarsi invece in uno spazio persecutorio e distruttivo) solo se fondato sulla più ampia corrente affettivamente positiva e su un consistente matrice di – in tutte le sue accezioni – “simpatia” o, se vogliamo, di “compassione” buddista, che è l’unica trama su cui costruire il set/setting. A mio parere, se le stesse logiche fossero utilizzate in un contesto in cui la comunicazione non verbale è impossibile o assente (ad esempio, una comunicazione telematica o una psicoterapia on-line), un clima del genere diventerebbe immediatamente paranoideo, forse proprio perché il codice autoorientante che condividiamo è un codice che non presuppone mai il gioco e la sua positività affettiva come modalità interattiva. In questo senso, è peraltro molto interessante approfondire quanto dice Farrelly ne la sua “Terapia Provocativa”, (Farrelly – Brandsma, 1984) in cui il momento terapeutico è identificabile nella (o comunque condizionato dalla) divaricazione fra messaggio verbale – provocatorio, insultante, aggressivo – e la simpatia di fondo che unisce il terapeuta al suo “paziente” .

Due dati devono dunque essere considerati di gran lunga più determinanti degli altri.

Il primo, è che nella scrittura delle trame della VMT, lo psicoterapeuta ha una sorte perfettamente identica a quella dei personaggi del suo Teatro: interpreta sé stesso con la stessa logica ironica e caricaturale degli altri personaggi, cui lo legano identità di scrittura, e, dunque, solidarietà, e condivisione di impostazione e di intenti.

Se non ci fosse parità di scrittura, il contesto apparirebbe con molta probabilità vessatorio e persecutorio: e difatti, i problemi che, specie all’inizio, sono stati incontrati, sono stati tutti dovuti alla impossibilità di decodificare come “gioco” e come “affettivamente benevolente” il processo in atto. Questo implica che in psicoterapia il cambiamento arriva allorché viene condiviso un gioco all’interno di una matrice comunicativa non verbale tessuta di affettività e benevolenza, e che permetta di giocare – a seconda dei punti di vista – con il gioco altrui.

Implicitamente, tutto questo spiega perché ogni psicoterapeuta ha il proprio “gioco” attraverso cui impostare le regole del suo creare relazioni per il cambiamento: l’esistenza di cinquecento e più terapie al mondo (e tutte le distinzioni che si possono fare all’interno di ciascuna di esse) indica appunto che ognuno ha il suo gioco – o che la Psicoterapia è Teatro quanto, appunto, il Teatro è Psicoterapia. Parafrasando Maturana, e (come vedremo oltre) anche Hillman, dunque: è qui che la psicoterapia ritorna arte.

Da questo punto di vista, è ovvio che l’utilizzo della videoregistrazione è dunque un dato puramente tecnico, una scelta personale attraverso cui creare lo spazio (virtuale) per una riflessione narrativa e dunque creativa

Ovviamente, ciò implica la consapevolezza che l’aspetto più emblematico di un setting basato sulla videoregistrazione è che esso nasce come tale per una personale passione verso la videoregistrazione, il cinema, il filmare storie.

La stessa dimensione si può dunque lasciare emergere utilizzando altra “tecnologia”: il gruppo in psicoterapia può creare una storia su se stesso editando un CD ROM, o scrivendo un manoscritto, inventando un fotoromanzo (al cui linguaggio volutamente popolare e scadente si possono adattare temi, linguaggi, situazioni del contesto psicoterapico), o anche interpretando – se tale accostamento non disturba le posizioni ortodosse – un sogno, un lapsus, una scelta di un “paziente”: come dice Hillman, la terapia è narrativa: ma, anche qui, il limite alla “narrazione” come “terapia” e alla “terapia” come “narrazione”, è soltanto nella costruzione che se ne fa.


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